Il mio nome è Lorenz Knorr. Cresciuto nel 1921 a Eger, ora Cheb, nei territori tedeschi occupati in Cecoslovacchia. Professione appresa: compositore tipografico e tipografo. Dopo il 1945 attivo nella gioventù socialista come segretario nazionale e federale. Per 25 anni a capo della Friedensunion (Unione per la pace) tedesca e poi portavoce federale della Vereinigung der Verfolgten des Naziregimes (Associazione perseguitati dal regime nazista). Chi è cresciuto negli anni '20 e '30 del secolo passato nei territori tedeschi occupati della Cecoslovacchia nella famiglia di un funzionario della classe lavoratrice, avrà a che fare fin da piccolo con problemi e lotte politiche in continua evoluzione. Mio padre era, prima della prima guerra mondiale, il più famoso tra chi guidava gli scioperi a Eger e, nel dopoguerra, nonostante non fosse più idoneo al lavoro, continuò ad essere oratore in manifestazioni e incontri del sindacato. Ovviamente anche suo figlio fu coinvolto, dal momento che spesso i genitori lo portavano con sé agli eventi politici, e in particolare ovviamente per il 1 maggio o in altri giorni di festa del movimento dei lavoratori. Le esperienze formative che più hanno lasciato il segno furono però nell'anno 1933, quando il corpus e lo stato maggiore tedeschi spostarono il potere nelle mani dei capi nazisti, e nel 1934 in Austria, quando la Heimwehr clerico-fascista distrusse il movimento operaio. Volendo comprendere lo sviluppo dell'umanità come un percorso da forme minori di vita comunitaria a forme sempre più alte di vita comunitaria, questo era ovviamente un violento salto indietro. Il movimento dei lavoratori tedesco era il più forte e quello dalle basi ideologiche più consolidate, all'interno della prima Internazionale e si poteva dire lo stesso del movimento dei lavoratori austriaco. Attraverso gli immigranti siamo venuti a conoscenza non solo della pessima situazione degli antifascisti, ma anche degli effetti a livello internazionale del regresso della civilizzazione avvenuto nel 1933. Fino ad allora, in Cecoslovacchia, per i partiti dei lavoratori, sia cecoslovacchi che tedeschi, l'accento era sulle questioni di classe, ovvero la lotta per condizioni di vita migliori, sia materiali che culturali. Questo naturalmente non finì nel 1933, ma più i nazisti, i sostenitori di Hitler nelle zone tedesche cecoslovacche, crescevano, più si arrivò a nuove ostilità politiche. Da un lato, i sostenitori di Hitler nei territori tedeschi della Cecoslovacchia, sempre più aggressivi, e dall'altro lato gli antifascisti tedeschi e cecoslovacchi. Per cui non era vero, come si crede spesso, che i tedeschi e i cecoslovacchi fossero uno contro l'altro. La versione nazionalista dei fatti è un tentativo tardivo per sviare dai veri problemi che avevamo ai tempi.
I preparativi che riuscimmo a fare prima che il fascismo tedesco marciasse nei territori tedeschi della Cecoslovacchia si dimostrarono rilevanti dopo l'eliminazione del clerico-fascismo austriaco da parte del fascismo tedesco, nel 1934, sostituendolo con il regime nazista e proclamando il grande Reich tedesco. Erano i giorni del 12 e 13 Marzo 1938. Già allora sapevamo che la prossima vittima sarebbe stata la Cecoslovacchia, l'ultimo baluardo democratico in Europa centrale. Quindi abbiamo avuto, a partire dal Marzo 1938 fino agli accorti di Monaco del 29 settembre 1938 abbastanza opportunità di prepararci al lavoro illegale e alla lotta antifascista. Questa fu la differenza tra la lotta antifascista nei territori tedeschi della Cecoslovacchia, oggi chiamati Sudeti, e la lotta degli antifascisti tedeschi e austriaci, che non avevano avuto una tale esperienza, né tempo per prepararsi. Per questo l'efficacia della nostra lotta fu maggiore. Non c'erano obblighi di partito alla resistenza, si trattava piuttosto di una decisione volontaria. Di decidere se difendersi e attaccare, se correre il rischio di vivere ogni giorno con un piede nella vita e un altro nella fossa. A ciascuno toccava prendere questa decisione individualmente.
We shared the same enemy, which was fascism
Il fascismo era un tema di cui prendemmo coscienza tramite gli immigranti. Abbiamo invitato spesso immigranti dall'Austria e dalla Germania, nei nostri gruppi giovanili, perché ci potessero raccontare. E sapevamo già da prima, prima che il grande capitale e i generali spingessero il potere nelle mani nel gruppetto dei leader nazisti: Hitler significa guerra. E significa anche che siamo cresciuti non solo ne campo della lotta antifascista, ma anche in quello della lotta per la pace. Per noi era una cosa sola: la lotta antifascista e la lotta per la pace. Questo, naturalmente, richiedeva che facessimo luce sulla questione. Dopo la mia confermazione civile, uscito da scuola, seguii il mio primo seminario marxista. Naturalmente la cosa continuò e là i giovani che si interessavano della cosa potevano imparare le basi da conoscere, per chi volesse diventare un funzionario del movimento dei lavoratori. Per cui non si trattava solo di esperienze pratiche, ma avevamo anche seminari attraverso i quali imparammo come affrontare gli avversari politici. Ai tempi ad esempio era obbligatorio per un funzionario della gioventù socialista aver letto il "Mein Kampf" di Hitler. Perché? Così da poter dire quali fossero i veri obbiettivi al funzionario nazista, che non li conosceva così bene come noi. Non credevano davvero che Hitler volesse la guerra. Non facevamo che sentire: "Non sono mica così stupidi da andare da soli contro il mondo intero." Ma noi potevamo citare dal "Mein Kampf" che la conquista di nuove zone vitali nell'Est era un punto principale del programma nazista. Così quando in un confronto con i nazisti, nelle aziende, nelle scuole, o altrove riuscivamo a vincere la discussione, potevamo avere un effetto anche sugli indecisi. Nonostante tutto i nazisti diventarono sempre più forti. In parte attraverso i problemi sociali e in parte perché i tedeschi, la radiodiffusione tedesca di destra, avevano un'incredibile influenza. Molti tedeschi non sapevano il ceco, ma le emittenti di Königs Wusterhausen e Zeesen, entrambe naziste, si sentivano molto bene e la loro influenza nel trattare i problemi sociali come nazionali, pur essendo falsità, naturalmente influì. Soprattutto per via delladisoccupazione di massa nelle zone tedesche.
Naturalmente abbiamo cominciato a discutere con i giovani, ma sempre di più ci trovammo costretti a discutere anche con gli adulti. Non è che solo i giovani discutessero di fascismo. Sapevamo ben distinguere tra il fascismo italiano, il fascismo nero in Austria e il fascismo marrone tedesco. È una differenza che bisognava sapere e di cui tener conto. Ma in questo modo finivamo inevitabilmente in conflitti, perché fin dall'inizio ci furono, questo è un termine storico, "battaglie da sala". I nazisti tentavano per esempio di invadere gli eventi degli antifascisti e renderli impossibili e così anche gli antifascisti tentavano di rendere impossibili gli eventi dei nazisti. Ovviamente si finiva per litigare e siccome io ero piuttosto forte, sono andato là, agli eventi antifascisti, contro il parere dei miei genitori, già quando avevo 15 anni. Quando i nazisti invadevano o tentavano di invadere gli eventi, bisognava ovviamente difendersi. E l'abbiamo fatto, e c'erano sempre confronti verbali, prima di arrivare a picchiarci. Funzionava così, e tra di noi c'erano anche diverse correnti. Mio padre apparteneva alla corrente che diceva che i nazisti non si possono battere con le loro stesse armi, che non dovevamo riprendere la violenza dei nazisti, ma puntare sul chiarimento. Altri, i nostri lavoratori metallurgici nelle aziende, dicevano: "Ma è quello che viviamo ogni giorno, quelli capiscono solo la lingua della violenza. Le nostre argomentazioni gli scivolano addosso come gocce di pioggia su una mantella per la pioggia. L'unico modo per prevalere contro i nazisti è la violenza." E all'interno della gioventù socialista abbiamo fatto entrambe le cose. Abbiamo creato il nostro armamentario teorico, per poter discutere coi nazisti, e allo stesso tempo eravamo in grado di difenderci. Non ci mancava nulla. Fino al 1936 abbiamo cantato: "Mai, mai vogliamo indossare le armi! Mai, mai più vogliamo la guerra. Lascia quelli che stanno in alto da soli a combattersi tra di loro, noi non partecipiamo più." Ma poi arrivarono i compagni più anziani e dissero, Hitler è alle porte con discussioni armate e voi non volete difendervi. Ci fu una discussione gigantesca nell'associazione giovanile e decidemmo allora di imparare a difenderci. Abbiamo imparatp a sparare e un nuovo tipo di sport da combattimento, che i nazisti non conoscevano nemmeno di nome. Oggi niente di nuovo, ma allora era nuovissimo: lo Jiu-Jitsu, imparare a colpire con il lato della mano. In questo modo avremmo vinto contro la maggior parte dei nazisti. Quando ad esempio uno dei nostri centri giovanili veniva accerchiato da militanti nazisti e la loro gente, come avremmo potuto liberare i gruppi nei centri giovanili? Con mezzi di difesa? Non avrebbe funzionato. Dovevamo intervenire, e solo quando i loro militanti erano stati sconfitti, solo allora gli altri si disperdevano e potevamo liberare la nostra gente dai centri giovanili. Succedeva spesso, l'organizzazione adulta dei socialdemocratici, ovvero i socialisti, la "Rote Wehr", più tardi "Republikanische Wehr", era strettamente sulle difensive. Andava bene, quando gli edifici pubblici dovevano essere difesi dagli attacchi dei nazisti. Andava bene durante le dimostrazioni, con la "rote Wehr" davanti e in fondo, ma quando era un locale per eventi in un piccolo paesino ad essere circondato dai nazisti, alcuni di noi erano già dentro e la parte restante voleva entrare per partecipare all'evento e non poteva, beh allora veniva chiamata la nostra divisione di pionieri. Per allora abbiamo fatto in modo di disperdere il cerchio di gente intorno all'edificio con la nostra tattica di combattimento, e con il nostro nuovo metodo di lotta era possibile.
Abbiamo portato la nostra conoscenza fino ai paesini più piccoli. Il movimento operaio era forte nelle città. Nei borghi coinvolgeva per lo più la popolazione rurale e alcuni artigiani. Per ottenere una certa influenza anche qui, noi giovani socialisti abbiamo raggiunto questi paesini in bici e abbiamo organizzato eventi, cercando di coinvolgere le persone. Durante gli eventi culturali abbiamo tenuto discorsi, per cercare di chiarire cosa volesse dire fascismo, cosa significasse sostenere Hitler e, nel nostro caso, Hänlein. Era un lavoro di delucidazione. Avevamo anche i nostri gruppi Agitprop, che erano stati educati ad ottenere le cose attraverso la cultura quando i discorsi non bastavano. Eravamo consapevoli che non si trattava solo di rivolgersi all'intelletto delle persone. Sapevamo che l'uomo era fatto anche di emozioni e forze motrici e con l'attività culturale dei nostri gruppi Agitprop, non ci rivolgevamo solo alla testa, ma all'uomo nel suo intero. E ciò ha avuto il suo effetto.
Lavoravamo in gruppi di tre persone. Per stringere accordi, si incontravano un membro per gruppo in posti dove non potevano sentirci e preparavano le operazioni. Si trattava di attaccare volantini o poster e più tardi, quando notammo che non era abbastanza, di atti di sabotaggio. Mezzo anno dopo l'invasione, le due aziende più grandi a Eger, che vendevano bici, cominciarono a produrre armamenti. Allora pensammo: "Finalmente è arrivato il momento della campagna di poster!" Ogni gruppo attaccò 10 poster durante la notte e salvo un'eccezione nella piazza del mercato davanti alle SS in cui i poster erano stati tolti, tutti gli altri erano rimasti attaccati. La mattina, le persone si avvicinarono ai manifesti in cui era scritto: "Così la guerra viene preparata. Difendetevi in tempo, prima che sia troppo tardi." Ma solo quando poi ci chiedemmo cosa avessimo raggiunto, ci accorgemmo di aver fatto poco. Le attività illegali dovevano smuovere le persone. Così decidemmo di procedere più duramente. Dato che molti di noi sapevano maneggiare l'esplosivo e avevamo le micce, dato che la mia città Eger era un nodo ferroviario e dato che una tratta strategica portava a Berlino, passando per Hof, un'altra a Breslau per Karlsbad Reichenberg, un'altra a Monaco per Marktredwitz e un'altra all'ovest per Francoforte, decidemmo di spezzare i binari. Lo facemmo e per due giorni su questa tratta non avvenne alcun trasporto di armamenti, di persone né alcun tipo di trasporto strategico. Ci volle un po' di tempo perché potessero gestire l'inconveniente e capire chi fosse stato.
Dopo l'accordo di Monaco avevamo a disposizione 36 divisioni, che entrarono in Cecoslovacchia da tutti i lati. Boemia e Moravia erano circondate a nord, ovest e sud dalla Großdeutschland. Allora succedeva così: all'inizio si lavorava da civile poi, con l'inizio della guerra nel '39, cominciarono i reclutamenti. Venni arruolato a fine anni '40, così da poter lavorare illegalmente due anni come civile. Solo quando ci arruolammo (l'alternativa era il campo di concentramento), iniziò il nostro lavoro alla Wehrmacht e il tentativo di creare gruppi antifascisti. Dopo due anni di operazioni illegali, entrammo nella Wehrmacht. L'alternativa erano i campi di concentramento. Ci consultammo sul da farsi, ovvero se rifiutare l'ordine di arruolarsi, ma avrebbe significato tortura e campi. Come soldati avremmo avuto più libertà d'azione. Questa fu la nostra decisione. Da recluta, partecipai come soldato alla lotta antifascista. Ero a Bayreuth, dove c'era un gruppo illegale. Un commesso viaggiatore antifascista, che faceva sempre avanti e indietro per il confine, mi mise in contatto con il gruppo antifascista. Per loro ero uno sconosciuto. Volevano una prova di quanto fossi affidabile e di cosa sapessi fare. Mi dissero che avevano bisogno di munizioni: "Puoi procurarci una cassa di granate? Abbiamo l'esplosivo, non abbastanza, ma il resto c'è!" Fu molto difficile, ma durante un trasporto misi in disparte una cassa di granate, rischiando la mia vita. Poi li informai. Tre giorni dopo a Bayreuth, l'ufficio distrettuale di leva saltò in aria con tutto lo schedario. Nella fabbrica d'armi, la macchina più importante fu distrutta. La parte più difficile: nell'aerodromo, facemmo esplodere due macchine su tre. Non io, ma gli antifascisti di Bayreuth. Io però li aiutai come recluta. La questione era: cosa si poteva fare da soldati in un territorio sconosciuto? Cercammo sempre di creare gruppi antifascisti, ma non era facile scoprire chi la pensava come noi. Dovevamo fare attenzione ad alcune domande. A volte si facevano delle battute e dal modo in cui reagivano si capiva chi era un oppositore del fascismo o chi si indignava davanti a quelle battute contro i nazisti. Nel tempo in cui fui soldato, ci fu sempre e ovunque un gruppo antifascista all'interno dell'unità. Fu ancora meglio dopo la mia grave ferita. Come piccolo gruppo cercammo di fare il possibile. Quindi gli mettemmo i bastoni tra le ruote. Sapevamo che uno solo non poteva ottenere molto, ma quando azioni come queste continuano a ripetersi, non si tratta solo di calmare la propria coscienza: io ero contrario e ho fatto qualcosa contro di loro. Si tratta anche di mostrare l'altra parte: "Non potete fare quello che volete. Noi vi teniamo d'occhio!"
Già nell'estate del 1938, quindi prima dell'arrivo dei nazisti, avevamo concordato che non solo avremmo mantenuto i contatti, ma avremmo elaborato una scrittura cifrata. Un codice sicuro con cui poter scambiare anche messaggi politici. Era un codice segreto, che fino alla fine non venne decodificato dalla Gestapo. Un sistema molto raffinato, chiamato "Sistema a due caste". Quando il codice veniva scoperto, bisognava ricattare il mittente e il destinatario, per ottenere più informazioni. Così dovevamo di nuovo nascondere il codice; fu una mia idea. Poi, per mimetizzarci, stabilimmo di usare l'articolo settimanale che Goebbels scriveva nel "Völkischen Beobachter" o nel "Reich". Lo sottolineavamo in rosso e nella lettera accompagnatoria scrivevamo: questa frase di Goebbels è importante, devi discuterne con altri, devi prestarle attenzione e così via. Questo aveva solo la funzione di distrarre, perché l'articolo conteneva la scrittura cifrata. Con un ago si pungevano alcune lettere sul retro del testo criptato. Le lettere dovevano essere filtrate, tenendo il foglio sotto la luce. Così il testo veniva decodificato. Nessuno notò che stavamo usando un codice segreto. Quando poi la guerra iniziò ci fu un altro evento importante: con l'attacco alla Polonia, la Wehrmacht e la Luftwaffe cercavano aiuto militare femminile (Blitzmädchen) che potessero aiutarli come operatrici radio o centraliniste nei territori occupati. Così 8 delle nostre compagne, che non appartenevano allo zoccolo duro, si offrirono volontarie. Quindi dovevano essere messe al corrente del nostro codice, che prima conosceva solo lo zoccolo duro. Noi dovevamo mantenere la connessione e loro dovevano entrare in contatto con i partigiani del posto. Dopo che fui ferito gravemente in Africa nella Strafkompanie in Africa, mi spostarono a operatore radio. così avevamo la possibilità di comunicare più velocemente. Ogni radiotelegrafista poteva parlare, tramite radio, con qualsiasi altro operatore. Dovevamo solo stare attenti, perché la Gestapo e le SS intercettavano tutto. ma funzionò, così usammo anche la comunicazione via radio. Non tutti riuscirono a farlo, ma io ci riuscii. Dal '41 al '45 comunicai con i membri del partito in esilio a Londra. La posta codificata arrivava a Bergen in Norvegia. Là c'era una nostra compagna (una Blitzmädchen), che era in contatto con i partigiani. Loro portavano la posta in Svezia. A Stoccolma c'era l'allora segretario del partito che aveva creato la connessione aerea tra Londra e Stoccolma. Finché non arrivava la domanda: Com'è il morale della popolazione? Dove sono i posti per far atterrare i paracadutisti? Dove trovare un ambiente in cui possano vivere e operare in modo sicuro? Non bastava solo lanciarsi col paracadute. Arrivavano queste domande e noi rispondevamo. Più tardi diventò tutto più veloce, perché a una compagna, che era emigrata a Londra con i genitori, venne data una nuova identità. Fu fatta entrare clandestinamente in Danimarca e là sposò un combattente della resistenza. Fece domanda presso il posto di comando tedesco. Nessuno sapeva che parlasse ebraico. Inoltre parlava tedesco, francese, inglese e danese. Presentò domanda presso il posto di comando. Dato che era bravissima con la macchina da scrivere e con la stenografia, venne subito assunta. Grazie alla sua bravura ed eloquenza non ci volle molto prima che si sedesse nell'ufficio esterno del generale tedesco al comando. Così aveva accesso a tutti gli atti. Tutto quello che riguardava il generale e tutto quello che veniva dal Führer passava per le sue mani. Ovviamente era una fonte e aveva diretto contatto con Londra. Così il percorso diventava più corto perché i contatti per e da Londra erano diventati più veloci. Non ci volevano più sei settimane, ma circa due o tre perché il messaggio arrivasse e tornasse. Ovviamente cifrato.
Mi spostarono in Africa. Là dovevo combattere contro una pattuglia di motociclette. Anche se devo dire che avevamo promesso che da soldati non avremmo mai sparato ad uno identificato da loro come nemico. Sparammo in aria e non mai colpimmo nessuno, se non in caso di legittima difesa. Là continuai a lavorare illegalmente. Per esempio all'ospedale di Tripoli mi si avvicinarono un gruppo di medici antifascisti e un gruppo antifascista di radiotelegrafisti. Mi chiesero se potevo procurargli delle micce, perché a Bengasi erano pronti per un'esplosione. Di esplosivo ne avevano abbastanza, ma mancavano le micce. Quindi mi organizzai assieme a due persone fidate. Si aggregarono i soldati convalescenti dell'ospedale e così ci procurammo le micce. Qualche giorno dopo, a Bengasi, un quarto del più grande deposito di munizioni dell'esercito di Rommel in Africa, saltò in aria. Poi emerse un nuovo problema. Erano stati uccisi sei arabi e un soldato tedesco che non avevano partecipato affatto, perciò sorse la questione: "Sei colpevole per la morte di quegli innocenti uccisi dalla Wehrmacht!" Poi però c'era da considerare: di chi era la colpa più grande? Se non fai niente contro questo regime di criminali, se subisci rimanendo in silenzio, che colpa si addossa su di te poi? La guerra causa così tante morti.. Non dovresti considerare che nella lotta contro il fascismo possano morire anche persone innocenti? Questa è una questione importante nella vita civile ed è lo stesso durante la guerra. La lotta contro il regime fascista viene prima di tutto. Una decisione etica molto difficile. Anche la questione della diserzione venne discussa tra tutti gli antifascisti attivi. In Africa non si poteva cambiare fronte perché la guerra era mobile. Si poteva cambiare fronte solo se un'unità veniva circondata dagli inglesi. In quel caso potevamo svignarcela ed andarcene senza rischiare la prigione. Quando però andai in Polonia e in Russia non funzionò, perché come radiotelegrafisti eravamo troppo lontani dal fronte. Gli operatori radio erano relativamente lontano da dove sedevano gli stati maggiori, che erano a circa 50-60 km dietro al fronte. Però fui principalmente con il corpo d'armata e l'esercito, quindi nelle posizioni più alte. Eravamo lontani dal fronte quindi non poteva funzionare, ma dovevamo cogliere l'occasione. Quindi in caso si fosse mostrata, l'avrei colta insieme a molti altri.
Fu una burla che mi portò davanti alla corte marziale in Africa. Se avessero saputo quello che avevo fatto veramente, in base alla legge marziale, mi avrebbero ucciso. Ma andai alla corte e mi misero nella Strafkompanie in Africa. Era una cosa orribile, perché si era completamente isolati e perché spesso si veniva messi davanti ai carri armati come bersagli per i cannoni. Vicino a Tobruch fui gravemente ferito dopo sei settimane nell'unità. Per due giorni rimasi incosciente, poi mi portarono ad Atene dove mi tolsero l'occhio. Metà della mia faccia era paralizzata per l'operazione. Dato che non ero più utile per la guerra, mi avviarono a radiotelegrafista. Nonostante la mia sfortuna, questo fu il meglio che mi potesse capitare non solo perché il radiotelegrafista era in una posizione privilegiata, ma anche perché potevano ascoltare le registrazioni della BBC o della stazione "Freies Deutschland". Ogni operatore lo faceva, sia che fosse nazista o antifascista. Quando si cercava una stazione remota bisognava stabilire un contatto e, incontrando un qualsiasi trasmettitore, si potevano intercettare. Ma non era l'unica cosa che si poteva fare. Ci si poteva anche mettere in contatto con un compagno di un altro trasmettitore. Il mio grande vantaggio era di ricevere la velocità più elevata (140 caratteri al minuto), che era la radio della polizia. La velocità standard più alta della Wehrmacht erano 120 caratteri al minuto ricevuti e mandati. Dato che io ne avevo 140, i generali erano interessati a me. Sapevano che la radio della polizia non poteva essere intercettata dalle SS e dalla Gestapo. I generali che non erano d'accordo con Hitler, avevano bisogno di entrare in contatto tra di loro via radio. Perciò volevano persone che avessero la velocità di 140 e io ero uno di quelli. Per questo arrivai al posto più alto. Avevo contatti con generali che erano tutto fuorché antifascisti, ma erano oppositori di Hitler per diversi motivi. Come radiotelegrafista quindi potevo fare molto più lavoro illegale rispetto a prima. E fu così fino alla fine della guerra.
Le emozioni andavano messe da parte il più possibile durante la lotta illegale. Prima che i nazisti ci occuparono, dei 33 attivi nell'opposizione fascista, c'erano 11 donne. Hanno ottenuto tanto quanto gli uomini. Una volta dovetti baciare controvoglia. Gli alunni si divertono sempre quando glielo racconto. Stavamo incollando i manifesti quando fummo sorpresi da una pattuglia delle SS che arrivò da una strada che le pattuglie non avevano mai fatto prima. Dissi: "Oh, arrivano le SS!" Istintivamente mi appoggiai con la schiena al manifesto. Era un periodo freddo dell'anno quindi coprii il vasetto di colla sotto il cappotto e lei si strinse a me dicendo: "Ora dobbiamo baciarci, lo dice il regolamento!" Così ci baciammo per ingannare le SS, che infatti pensarono si trattasse di una coppia. Erano così sfacciati che ci dissero: "I baci non bastano però. Il Führer ha bisogno di soldati, di prole!" Col cuore palpitante arrivammo a farlo, ma non aveva niente a che fare con le emozioni. Era la miseria. Avevamo contatti con le operatrici radio (anche quelle che vivevano all'estero), ma le conversazioni trattavano solo di traffico radio e codici segreti. Quando andai in vacanza a Eger o quando ebbi bisogno del mio occhio di vetro dissi al medico dell'esercito: "A Varsavia non sanno fare gli occhi di vetro, i migliori sono a Wiesbaden." Poi mi diedero un ordine di marcia dal fronte o dalla Russia o dalla Polonia a Wiesbaden. Poi feci una deviazione lungo Eger. E dissi a una o due: "Io sono a Eger, puoi raggiungermi qui?" Lì si incontravano spesso con le ragazza che erano in Norvegia o a Copenaghen. Era difficile mettersi d'accordo per questi ritrovi, ma ovviamente era uno scambio di esperienze accurato, perché si doveva comunicare attraverso la radio o lettere cifrate. Così riuscivamo ad analizzare la situazione: cosa era successo e cosa potevamo fare. Ci furono alcuni incontri, a erano praticamente slegati dalle emozioni. Si parlava sempre di cosa potevamo ottenere come antifascisti e di cosa non funzionava.
Alla fine della guerra mi ferirono di nuovo gravemente. Per poco tempo fui seppellito da una bomba aerea britannica e rimasi incosciente per due giorni. L'8 Maggio mi misero nell'ospedale provvisorio nelle prigioni inglesi. Solo pochi erano contenti che la guerra fosse finita. Molti ne erano indifferenti. Ma cosa ci aspettava ora? Alcuni, soprattutto giovani ufficiali che erano con me all'ospedale, erano ostili a questo cambiamento. Dicevano per esempio: "Deve continuare, dobbiamo combattere!" Alcuni di loro hanno preso parte al "Wehrwolf" come leader di giovani che combattevano contro all'occupazione. Ma non durò molto. Si ruppe quasi subito.
Se non mi fossi opposto non sarei rimasto fedele alle mie idee. Mio nonno era incarcerato nell'impero KUK (monarchia reale degli Asburgo) perché aveva lottato per il socialismo. Mio padre era stato rinchiuso per aver lottato per il socialismo. Era chiaro che io volevo continuare il loro lavoro, senza essere passivo, ma operando attivamente. Non ero solo e avevamo già imparato che quando in nemico attaccava, non dovevamo ritirarci, ma pensare a come avremmo potuto contrattaccare. Se eri sicuro di essere necessario dopo Hitler, allora questa era una frase importante: '...per il tempo dopo Hitler.' Dovevamo lavorare illegalmente senza prenderci rischi non necessari. Era chiaro che avremmo dovuto mettere i bastoni tra le ruote finché potevi e finché respiravi. E anche per molti altri, non solo per me, era così.
Lorenz Knorr (1921 - 2018)
Resistenza
1938 - 1945: Eger, Cheb (Repubblica Ceca), Bayreuth (Germania), Aussig (Repubblica Ceca), Ostrov (Repubblica Ceca), Spa (Belgio)
Armed Resistance
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Original interview language (German)
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