Mi chiamo Tadeusz Sułowski. Sono nato il 4 febbraio 1929 a Varsavia. Vengo da una famiglia di proprietari terrieri. Mio padre, nonostante fosse un ingegnere meccanico e avesse studiato in Germania, decise di rimanere a vivere in campagna. Aveva sempre avuto un interesse particolare per la campagna. Ero in vacanza nella tenuta di mia nonna Wanda Rozwadowska nella contea di Płock. La tenuta si chiamava Kobylniki. E fu qui che mi trovò la guerra. Già il primo giorno gli aerei tedeschi vennero a bombardare i villaggi vicini. Volevano centrare, tra le altre, la fattoria più bella che c'era da quelle parti. Subito dopo l'inizio della guerra comparvero delle motociclette tedesche, che, probabilmente, dovevano verificare se in quella zona ci fossero delle truppe polacche. Presto arrivò un'auto con degli ufficiali. Uno di loro scese, corse in veranda e mia zia si avvicinò per parlargli, perché sapeva un po' di tedesco e di francese. Il tedesco voleva porgerle la mano ma mia zia ritrasse la sua.
Già in ottobre i tedeschi inviarono a questa tenuta il cosiddetto Treuhänder (un fiduciario). Non era solo un custode ma un amministratore. Si chiamava Erik Ertbruger. Ben fatto, alto, un bell'uomo. Era un osservatore aereo ed era stato abbattuto sopra la Polonia e probabilmente, come compenso, il comando gli affidò questa tenuta polacca in modo che potesse riposarsi lontano dal fronte e dalle difficoltà della guerra. All'inizio Ertbruger si comportava bene. Giocava con noi bambini. Sembrava che fosse una persona carina. Purtroppo i tedeschi scoprirono che io, mia sorella e mia madre avevamo la residenza a Varsavia e a dicembre o gennaio 1940 ci trasferirono a Varsavia. A mia nonna, mia zia e mia cugina Hanka permisero di rimanere lì fino al 1941, quando vennero trasferite in una tenuta vicina, Orszymowo. Era sempre un piccolo maniero. Sfortunatamente il fienile aveva preso fuoco e i tedeschi sospettavano che mia zia avesse detto a mia cugina Hanka di incendiarlo. Semplicemente avevano costruito una versione per far arrestare mia zia. Forse il sig. Ertbruger si voleva vendicare, perché mia zia era una donna bellissima e lui sperava che dalla loro conoscenza potesse nascere qualcosa di più. Purtroppo però mia zia era una grande patriota. Odiava i tedeschi. Era così poco diplomatica, che non sapeva mascherare quel suo odio. E probabilmente per questo dovette pagare con la vita. Infatti la mandarono a Fordon [vicino a Bydgoszcz/Bromberg]. Prima emisero una sentenza di morte per aver incitato un bambino a bruciare il fienile. Noi mandammo a Hitler varie richieste di perdono e Hitler lo concesse, commutando la pena della zia in ergastolo. Lei venne però immediatamente trasferita da Fordon a Oświęcim [Auschwitz], dove rimase al massimo tre giorni.
A Varsavia dovevamo prendere in affitto un appartamento, perché la nostra casa era stata distrutta durante le operazioni militari. Affittammo un appartamento in viale Ujazdowskie. La proprietaria si chiamava sig.ra Kijewska. Così iniziò la nostra vita nella Varsavia occupata. A Varsavia, naturalmente, non ci dovevamo inchinare ai tedeschi. Era il cosiddetto Gevernorato Generale. Non avevamo delle grandi libertà, ma potevamo andare alla scuola elementare. Mie sorelle studiavano dalle Suore di Nazareth. Mio fratello si era già diplomato, quindi non andava a scuola. Mia sorella più grande molto presto si iscrisse all'università illegale. Le università infatti riuscirono a partire in tempo. Mio fratello invece presto entrò in contatto con un'organizzazione illegale di sinistra. Molti giovani all'epoca nutrivano rancore verso il nostro precedente sistema politico, il periodo del governo di Piłsudski, con molte ingiustizie e molta povertà. I giovani spesso non accettavano questa situazione nella nuova Polonia e volevano introdurre un sistema più democratico. Per questo motivo mio fratello entrò a far parte del PPS (Partito Socialista Polacco). Però non del PPS sotto la protezione dell'URSS, che era chiamato RPPS (Partito socialista operaio polacco), ma di quello guidato da Londra.
La preside della mia scuola era la zia di questo ragazzo che frequentava la scuola Staszic, lì c'era l'ottimo 16° reparto scout di Varsavia, dedicato a Zawisza Czarny. I responsabili di quel reparto dissero alla nostra preside che volevano reclutare delle persone nella nostra scuola. Iniziarono dalla mia classe, così io e alcuni altri compagni di altre classi entrammo a far parte di questo reparto scout. Ovviamente non ci dissero che tipo di reparto fosse e dove fosse la loro sede. Non ci dissero niente di tutto questo. Ci dissero invece molto sulla cospirazione. Non sapevamo cosa volesse dire, ma il nostro capo reparto, Michał Sianorzecki, il quale venne ucciso durante la Rivolta di Varsavia, dava molto peso a questo tema e ce ne parlò a lungo. C'era democrazia nella nostra organizzazione, e visto che tutti i nostri istruttori appartenevano all'Armia Krajowa, il consiglio del reparto voleva che il nostro reparto facesse parte delle Schiere Grigie [l'Associazione Scout paramilitare clandestina]. Io molto presto entrai a far parte della BS, cioè della Scuola di combattimento. Lì c'erano ragazzi tra i 15 anni e i 18 anni circa. Poi c'erano i GS, cioè i gruppi d'assalto, dove c'erano i ragazzi tra i 17 e i 18-20 anni. Ed è qui che c'erano i reparti di sabotaggio come "Zośka", "Parasol" (ombrello), "Miotła" (scopa). Non volevano che noi, che eravamo troppo giovani, facessimo operazioni di sabotaggio. Le nostre autorità scout erano molto attente al fatto che le persone troppo giovani non dovessero essere assegnate al sabotaggio. Chiaramente noi un po' le imbrogliavamo, nascondendo la nostra vera età. Così io a 14 anni ero già alla scuola per sottoufficiali perché, ovviamente, dissi di avrne 17. Il comandante di mio fratello Jerzy aveva capito che ero uno scout, che ero addestrato a seguire le tracce per fare qualche attività di intelligence. Avevano addestrato il mio spirito di osservazione e l'intraprendenza. Dovevo conoscere tutti i passaggi, le scorciatoie, che spesso tornavano utili. Così il comandante di mio fratello Jerzy ritenne che io, essendo un ragazzino con i pantaloncini, potessi essere utile per loro. E, poiché c'era una cellula di intelligence che doveva rintracciare varie persone incerte, informatori, principalmente informatori, spie e così via, spesso mi usavano per stare in guardia e attendere la persona che stavano seguendo.
Il capo era questo poeta socialista, il cui pseudonimo era il sig. Hagen. Noi lo chiamavamo "Robert". Doveva essere il capo di quel gruppo. Mi fece molti complimenti e mi chiese se volessi partecipare a un'azione di sabotaggio vera. Ovviamente dissi di sì. "Allora ti chiedo di attendere altre indicazioni. Quando sarà il momento e il tempo sarà abbastanza cupo, allora faremo un'azione sotto il ponte Poniatowski". Più tardi chiesi a mio fratello di che tipo di azione si trattasse. Mi disse che i tedeschi tenevano sotto quel ponte delle macchine di polizia e dei furgoni militari. Bisognava dargli fuoco. Mio fratello mi disse: " Ascolta, c'è questa cosa spiacevole, ho un regalo per te. Se dovessero catturarti e picchiarti talmente forte, da non riuscire a sopportarlo, c'è questa fiala di vetro…" – sembrava un'iniezione – "… devi morderla." E io gli faccio: "Non essere stupido, mi faccio male." E lui risponde: "Ormai sarà lo stesso, non appena la mordi, muori." Era cianuro. Il mio compito, come poi mi spiegarono, consisteva nel camminare lungo il marciapiede nello stesso modo in cui lo faceva la guardia che teneva d'occhio quei mezzi. La guardia era abbastanza riconoscibile perché indossava una pelliccia bianca. Era ottobre ma i tedeschi si preoccupavano dei propri soldati e li facevano vestire bene. Questo guardiano andava prevalentemente dalla via Dobra verso la città e poi tornava indietro. E io dovevo camminare lungo il lato opposto della via, osservando la pelliccia bianca. Mi dissero di accendere una sigaretta e loro, guardando le scintille, avrebbero capito dove mi trovassi e quindi dove si trovasse la guardia. A seconda di quanto l'uomo si fosse allontanato, sarebbero in grado di piazzare le bombe incendiarie, di solito tra la ruota e il parafango. La gomma è infiammabile. Se prende fuoco, non c'è modo di fermarlo. Funzionò bene. Ma potevamo scoprirlo solo il giorno dopo. Io andavo a scuola a Powiśle, in via Sewerynów, e avevo questo amico che abitava in viale Trzeciego Maja al numero 3, cioè di fornte al posto dove i tedeschi tenevano i furgoni. E questo amico, Jurek Suchanek, che faceva sempre parte degli scout ed era un mio compagno di classe, mi disse: "Non ci crederai, è successa una cosa grossa la notte scorsa nella nostra via! Intorno a mezzanotte stavano sparando e sotto il ponte c'era un enorme incendio! Dei sabotatori incendiarono i furgoni! I tedeschi sparavano! Che casino! E poi sirene dell'ambulanza!" E io gli chiesi: "Be', li hanno presi quei ragazzi?" "No, non credo. In ogni caso c'era un gran casino perché hanno bruciato 12 o 13 mezzi".
Mio fratello aveva questo lavoro nell'intelligence. Principalmente doveva seguire gli informatori che avrebbero potuto nuocere ai polacchi. Mio fratello non mi raccontava com'era, ma sapevo che doveva giustiziare un informatore, con il quale era entrato in contatto grazie al commercio nel ghetto. Dissero che l'informatore trafficava in pellicce e cose simili. Gli ebrei infatti stavano svendendo tutte le loro cose di valore. E fu così che mio fratello entrò in contatto con lui. Doveva avvicinarsi all'informatore, parlargli, seguirlo per poi sparargli. Quindi bisognava stabilire un contatto, d'amicizia o di altro tipo. Voleva che questo Marian Zieliński si presentasse in un certo luogo e a un certo orario per poterlo eliminare. Ci andarano in tre. L'uomo abitava in via Ogrodowa 69. Anche se era mio fratello e sembrava che fosse il capo di questo gruppo, fecero un casino. Quando questo Zieliński aprì la porta avrebbero dovuto sparargli e correre via, non entrare e parlare. Jerzy tirò fuori la sua pistola e a quel punto Zieliński aprì un cassetto, tirò fuori la sua arma e ferì Jerzy. L'altro compagno di mio fratello rimase ferito alla mano. Invece di rispondere allo sparo – si può sparare anche con una mano sola – questo ragazzo si girò e corse via. Zieliński, infuriato, vide che Jerzy era sdraiato per terra, o ferito, o morto, corse per le scale inseguendo il fuggitivo e sparando. Questo gli costò la vita, perché nel portone c'era il terzo uomo, il più saggio, Andrzejczak. L'avevo conoscito in precedenza perché un paio di mesi prima avevo avuto il piacere di lavorare con lui durante un'azione di sabotaggio. Lui attendeva con la pistola in mano. Finché non vide arrivare i due uomini. il primo era l'amico che scappava con la mano ferita. Gli urlò: "Mi ha colpito e 'Ralf' è morto, credo!" Allora Andrzejczak gli rispose: "Corri a prendere una carrozza!" e aspettò l'altro uomo. Zieliński, con la pistola ancora fumante, stava inseguendo il ragazzo ferito. Andrzejczak puntò verso Zieliński e quest'ultimo fece lo stesso, gli spari esplosero quasi simultaneamente, Andrzejczak centrò l'obiettivo, mentre Zieliński no. Il ragazzo che scappava fermò una carrozza, trainata da cavalli – non c'erano i taxi allora, erano solo per i tedeschi. Salirono in carrozza e scapparono. Questa storia mi fu raccontata da un amico di mio fratello ma, purtroppo, me la raccontò solo a luglio, mentre questi fatti risalivano al 19 marzo 1943. Mio fratello fu portato in un'ambulanza tedesca in via Szucha, alla sede della Gestapo. Anche Zieliński era nella stessa ambulanza e i due morirono, probabilmente, lì dentro. All'epoca gli informatori, i cosiddetti agenti segreti, danneggiavano pesantemente i gruppi della resistenza, per cui bisognava liquidarli. Anche molte donne vennereo uccise dai soldati dell'esercito sotterraneo. Le donne al servizio della Gestapo dovevano morire. Ritengo che fosse necessario e giusto. Era una guerra, l'invasore era intransigente, tantissime persone perdevano la loro vita. Nei campi di concentramento, per le strade. Moltissimi erano stati arrestati. E se si scopriva chi era il colpevole, quel colpevole doveva essere liquidato immediatamente.
Nel 1943 entrai nell'Armia Krajowa. Quindi, purtroppo, durante la Rivolta di Varsavia non ero insieme ai miei compagni dei tempi degli scout. Ero già un soldato dell'Armia Krajowa, assegnato al 7° reggimento di fanteria "Garłuch" a Okęcie. Il comandante del reggimento, il maggiore "Wysocki" (era uno pseudonimo, il suo nome era Babiarz) scoprì che i tedeschi avevano signifitivamente fortificato l'aeroporto. Vi avevano collocato un'enorme quantità di armi, mitragliatrici ecc. L'Armia Krajowa aveva pocchissime armi, praticamente non ne aveva. Be', avevamo le granate di cui parlavo, e il nostro plotone aveva due mitragliatrici della prima guerra mondiale, senza gli alimentatori. Dovevi mettere nella canna ogni proiettile separatamente, altrimenti non c'era modo di sparare, perché non avevamo quelle clip che funzionano come un serbatoio per le cartucce. Alle ore 16 il comandante del reggimento diede l'ordine di non attaccare quegli hangar. Non so perché quell'ordine non fosse stato dato alle 13 o alle 14. L'ora "W" (l'ora dell'attacco) era stata fissata per le 17. L'ordine fu portato dall'ufficiale di collegamento, ma alle 17:30, quando ormai era tardi. L'attacco venne effettuato da degli uomini praticamente indifesi della batteria "Kuba". In una mezz'ora vennero uccise 125 persone. Porto un rancore personale verso il comandante per non avere impartito quell'ordine almeno un'ora prima. Del resto sapeva che non c'erano i telefoni e che bisognava comunicare l'ordine di persona e a piedi. E spesso non potevi comunicarlo, perché ti imbattevi in una pattuglia o qualcosa del genere. Quindi bisognava mandare non un messaggero, bensì diversi. Quindi finì in questo modo. Per questo motivo il reggimento venne sciolto. Dovevamo arrivare da soli o a Varsavia o nella foresta di Kampinos. Quando giunse questo ordine di scioglimento, il mio comandante e amico, cadetto "Witold" voleva spararsi. Allora il tenente "Andrzej", il comandante della compagnia, afferrò il suo Sten, mentre io lo presi per le spalle e gli dissi: " Cadetto, ma è impazzito?! La guerra per noi è appena iniziata e lei vuole suicidarsi?! Ne avrà delle occasioni per essere ucciso!" Così rimase. Venne ucciso in seguito. Non fece mai ritorno dopo essere diventato partigiano.
Così giungemmo alle foreste di Chojnów e ci unimmo all'unità partigiana chiamata "Lancia". Era una squadra che proveniva dalla regione di Zamość. Erano armati abbastanza bene. Iniziammo lì la nostra vita da partigiani. Insieme all'unità "Lancia" attraversammo il fiume Pilica. Visto che sapevo cavalcare e qualcuno della pattuglia equestre era appena morto, mi misero su un cavallo e questo mi piaceva moltissimo. Sapete, un ragazzo di 15 anni che all'improvviso si ritrova in un distaccamento partigiano e gli danno pure un cavallo – era divertentissimo. Allo stesso tempo questo non poteva assolutamente lenire il mio dolore per non essere nella Rivolta. Del resto le mie sorelle erano lì, mia madre era rimasta a Varsavia e mia nonna anche. Mentre io ancora non avevo avuto nessuna ferita, non mi era successo niente. Ero tra i partigiani, ci allontanavamo sempre di più da Varsavia. Dopo aver attraversato il fiume Pilica giungemmo in un villaggio, dove, nella foresta, c'era un reparto di partigiani molto numeroso, circa mille persone. Il 25° Reggimento di Fanteria di Piotrków. Il gruppo "Lancia" decise di unirsi a questo reparto perché era molto più piccolo. CIrca 150 persone. Al contrario il 25° Reggimento era grande, era un reggimento, mille uomini. Ci diedero un caloroso benvenuto, persino ci pagarono. Però la stessa notte il "Lancia" diede l'ordine di sellare i cavalli, di caricare i carri, e se ne andò. Dio sa dove. Di fatto, presero la paga e scapparono. La cosa positiva era che il nostro comandante, il tenente "Osuch" conosceva bene il comandante del reggimento di Włodzimierz, il quale ci sostenne e quindi, dopo tutto, il maggiore ci accettò nel reggimento. In questo reggimento ci fermammo presso il villaggio di Mechlin. Per quasi un mese. In seguito ci spostammo verso un altro luogo, molto peggiore, perché era vicino alla strada. FInì male, perché i tedeschi ci attaccarono. Era troppo vicino alla strada e morirono delle persone. Noi per fortuna rimanemmo illesi. Nessuno ci attaccò. Al contrario, presso il villaggio di Mechlin, dove eravamo fermi per quasi un mese, avevano fatto una caccia all'uomo, attaccandoci con tutte le forze dei calmucchi, quei seguaci di Vlasov dei reparti della RONA. Sapete, quelle unità sovietiche diventate prigioniere dei tedeschi e poi passate al servizio dell'esercito tedesco. I tedeschi li usavano per eliminare i partigiani, nella Rivolta di Varsavia, e queste persone mostravano un'estrema crudeltà. Erano dei selvaggi semplicemente. Attaccarono il villaggio di Stefanów, dove era di stanza il 25° Reggimento, lì vicino c'era il villaggio di Gałki, dove si trovava il 72° Reggimento, con circa 500 uomini. Quindi quei due reggimenti dovevano andare avanti tutto il giorno a combattere contro i tedeschi, ma lì persero la vita forse 11 partigiani.
Dopo aver lasciato Stefanów ci spostammo nelle foreste di Białaczow, e il tenente "Osuch" venne da me dicendo che stavano radunando i soldati sopravvissuti alla Rivolta di Varsavia, che si stavano unendo ai vari gruppi partigiani vicino nella foresta. MI chiese se volessi far parte di un gruppo così. Naturalmente dissi di sì. Quindi mi ci portò, c'erano dieci uomini in questo gruppo. Lungo la strada scoprimmo chi si trovava dove. Nel villaggio di Bieliny avevamo questo messaggero, chiamato "Malina", che sapeva tutto quello che stava succedento intorno. "Malina" ci disse che c'era un gruppo numeroso che ne cercava uno ancora più grande. C'erano circa 150 persone sotto il comando del tenente "Lech", Stanisław Degórski. Era un'unità proveniente dalla regione di Lublino. Come finirono lì? Probabilmente, per prima cosa, giunsero a Kampinos, e poi, dopo la sconfitta del gruppo di Kampinos vicino a Jaktorow, arrivarono nella nostra foresta. Stabilirono con noi un contatto. Con questa unità combattemmo a Zdzary, vicino a Drzewica. Lì persero la vita due persone. Ci attaccarono i calmucchi. Due giorni dopo, cadendo da un carro, esplosero alcune mine. Il carro che c'era dietro passò sopra queste mine ed esse esplosero. Altri due uomini rimasero feriti. La gente era infuriata. Nelle vicinanze era di stanza l'unità "Szary’. Non volevano tornare al 25° reggimento. Ogni plotone aveva i propri rappresentanti e questi chiedevano al comando di accettare la loro adesione all'unità 'Szary'. Chiaramente, se "Szary" fosse d'accordo. Così mandammo a "Szary" un messaggero e "Szary" disse di sì. Ci accettò nella sua unità. E fu così che io diventai un soldato del 3° reggimento delle Legioni Polacche al comando di "Szary". Ci rimasi poco, perché il fronte russo si stava avvicinando, erano ormai in corrispondenza del Vistola. I tedeschi volevano sbarazzarsi dei partigiani e mandarono nella nostra foresta i calmucchi. Il 5 novembre ci fermammo nel villaggio di Boków, mentre il 4 di novembre il 25° Reggimento combattè in questo villaggio. Molti uomini morirono sia da parte nostra che dei tedeschi.
Lì ci attaccarono. Ero molto malato in quei giorni. Avevo marciato molto a lungo e avevo delle escoriazioni su una gamba. Portavamo degli scarponi alti e le gambe lì dentro venivano divorate dai pidocchi. Quando si potevano togliere gli scarponi, ce li toglievamo e ci grattavamo quelle povere gambe morsicate dai pidocchi. Questo mi provocò delle ferite e del liquido che ne fuoriusciva, avevo un'infezione, la febbre alta e non potevo camminare. Il comandante tirò fuori delle mappe e cercò di capire come uscire da lì. Dispiegò quelle mappe intorno e io vedevo come era tranquillo. Le cannonate intorno erano così forti, che era chiaro che tra poco avremmo dovuto combattere. Ma lui era lì sdraiato sulla sua coperta, tutto tranquillo, che guardava le mappe. Probabilmente stava cercando di capire come farci uscire da quella trappola nel migliore dei modi. Avevamo questo sottoufficiale a cavallo. Gli chiedemmo di fare un giro a destra e a sinistra nella foresta per trovare la miglior via d'uscita. Provò alcune volte in varie direzioni ma ogni volta tornava dicendo che eravamo circondati e non avevamo nessuna via di scampo. A un certo punto qualcuno disse: "Ragazzi, pensiamoci, dobbiamo fare qualcosa. Cosa facciamo?" Io dissi: "Niente, rimaniamo qui, non ci arrenderemo facilmente. Tanto è la fine..." Però l'essere umano vuole sempre, fino all'ultimo, salvarsi. C'erano questi cespugli terribilmente fitti. Non c'era modo di passarci. Ma in qualche maniera riuscimmo a farci strada tra quei cespugli aiutandoci con i fucili. Uno doveva sollevare con l'arma quelle mostruose, spesse, aguzze spine, mentre l'altro doveva strisciare sotto per passare. Così entrammo in quei cespugli e pensavamo che nessuno ci avrebbe trovato lì. Una volta entrati, dopo aver superato la parte peggiore, lì dentro si era creata una specie di piazzola, larga due volte questa stanza. Ci cacciarono tutti quanti da quei cespugli e ci fecero prigionieri. Io uscivo per ultimo. Cosa avrebbero detto le mie sorelle? Mia madre? Io, fatto prigioniero! Uscì e vidi un mucchio fatto con le nostre armi, perché gli uomini di Vlasov ci dissero di lasciarle lì. Le nostre armi ammucchiate così, i miei amici in una fila, e quelli di Vlasov che gli legavano le mani dietro la schiena. Quando lo vidi, nascosi la testa e indietreggiai nascondendomi sotto questo boschetto di ginepri o qualcosa del genere, una pianta bassa. Tenendo tra le gambe quel mio sten senza il caricatore, mi appoggiai sui gomiti e aspettai che le cose si calmassero. Gli uomini di Vlasov legarono i miei amici e si sentivano le loro esclamazioni. Perché mentre procedevano, per farsi coraggio, gridavano: "Urrà! Urrà". E inoltre erano tutti terribilmente ubriachi. Quando qualcuno di loro moriva, controllavamo che armi avesse e loro avevano sempre delle borracce piene di alcolici. Quindi li sentivo allontanarsi, ormai era notte. All'improvviso qualcunò iniziò a fischiettare "Jeszcze Polska nie zginęła" [l'inno polacco]. Dopo un po' gli risposi fischiettando a mia volta. Allora mi chiese: "Quanti siete?". E io risposi: "Sono solo". "Noi siamo in quattro." Quindi c'erano altri quattro ragazzi furbi come me, che si nascondevano nei boschetti. Qualcuno aveva dei fiammiferi, quindi li accendevamo per vedere si ci conoscessimo o meno. C'erano circa 500 persone nell'unità "Szary". Era difficile che ci conoscessimo tutti. Erano soprattutto i ragazzi dalla regione di Vilnius. Perché erano di stanza a Kampinos, e il gruppo "Dolina", insieme ai ragazzi di Vilnius e Navahrudak, si era unito al gruppo di Kampinos. Erano in molti e si erano uniti a noi. Per questo c'erano così tanti ragazzi dalla regione di Vilnius. Gli chiesi in seguito dove avrebbero voluto andare dopo, cosa avrebbero voluto fare, e loro risposero: "Torniamo a Vilnius". Io li salutai e continuai la mia marcia.
"C'è una parola: cospirazione. Cosa significa? Nessuno lo sa. Un divertimento non comune, un cibo per l'anima. Un'illusione, aria, etere, foschia? Eppure un significato ce l'ha! Perché la cospirazione è la cospirazione! È il senso della nostra vita! Ci vuole stile, ci vuole grazia per portare una MG senza i documenti! (una mitragliatrice) Un comune cospiratore ha questo aspetto: è tranquillo, simpatico, ha buone maniere – niente che salti all'occhio! Quando deve parlare, sta attento, controlla anche sotto l'armadio che nessuno lo spii. Ah, questa cospirazione, la cospirazione! È il senso della nostra vita! CI vuole stile, ci vuole grazia per portare una MG senza i documenti! C'era una volta un cospiratore – non importa il cognome –, che rimasto solo di notte, volle pulire il suo fucile. Costui rilasciò il grilletto e lo sparo finì nel letto. I vicini, dallo spavento, si gettarono sul pavimento! E ora lo sa tutta Varsavia, ogni bambino, ogni guardiano: per fare pratica, bisogna sparare, e lasciar stare il letto!"
Tadeusz Sułowski (1929 - 2020)
Resistenza
1939 - 1945: Warsaw (Polonia)
Armed Resistance
gruppi di resistenza
Armia Krajowa
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