Mi chiamo Stanisław Baranowski. Sono nato il 16 novembre 1924 a Varsavia. Se non fosse scoppiata la guerra, sarei andato alla scuola di aeronautica e meccanica per diventare pilota. Era il mio sogno. Nel 1939 ero in un campo scout. In agosto stavamo tornando dal campo scout. Non raggiungemmo la Stazione di Varsavia Centrale, ma ci fecero scendere alla Stazione Est. Facevo parte del 42° Reparto Scout in via Rózana. La nostra attività ebbe inizio negli scout. Compagni scout, come me, i nomi che mi ricordo sono Mietek Wiącek, Heniek Balas, Stefan Wojakowski, Tadeusz Jagier, Jozef Smółka, Leszek Janiszewski e molti, molti altri scout. Iniziammo da subito durante la guerra a incontrarci e organizzarci. A un certo punto, – non mi ricordo come fosse venuto fuori –, qualcuno disse che il nostro reparto era stato assegnato al quartier generale della difesa di Varsavia che si trovava presso il Palazzo Myśliwski nel parco Łazienki Królewskie, l'entrata qui, dalla via 29 Novembre. Andammo lì, alcuni di noi. Fummo classificati come corrieri, guide di Varsavia. Perché le unità che allora erano di stanza a Varsavia, erano soldati che non conoscevano Varsavia. E così iniziò la mia avventura con la guerra. Eravamo stati educati con uno spirito diverso prima della guerra. Facevo parte degli scout da quando avevo docici anni, cioè a quel punto da quasi quattro o cinque anni. E lo scoutismo ci formò in una maniera piuttosto diversa da oggi. C'era una base: amore per la patria, preparazione fisica, sport e altre cose.
Subito dopo lo scoppio della guerra, dopo la capitolazione, a Varsavia regnava il caos, la fame. Si iniziarono a formare i cosiddetti comitati SKO. I comitati del welfare. Iniziammo a lavorare lì, il nostro gruppo di scout. Lo scopo era quello di aiutare le persone che si trovavano nelle situazioni tragiche. Vale a dire o con il cibo o con qualcos'altro… All'inizio non c'era niente. Con le tessere si poteva avere il cherosene o i detergenti. Semplicemente non c'era nulla. Noi aiutavamo queste persone. E io iniziai a lavorare con Wanda Jaskólska. Era una professoressa di fracese alla Regine Edvige (scuola). Insegnava il francese lì. Lei gestiva questo gruppo SKO, organizzò lei tutto questo. Successivamente, dopo un po' di tempo, questo si trasformò nel RGO. Ma questo fu dopo, quando la nostra tipografia iniziò a funzionare in via Przemysłowa. C'era stata una grossa falla, esattamente nel 1942 in questa tipografia venivano stampate le tessere di Meinl e di Wohlfarth. Queste erano tessere per i tedeschi. Erano tessere alimentari. I tedeschi avevano i loro negozi. C'erano due tipi di negozi a Varsavia. I negozi Wohlfarth avevano la carne, mentre quelli di Meinl erano negozi di alimentari. E noi usavamo quelle tessere falsificate e andavamo in quei negozi. E' difficile dire da dove la direzione del RGO prendesse i soldi per questi aiuti. Ma gli aiuti erano veramente considerevoli. Io ero un semplice, come dire, ordinario volontario. O meglio un lavoratore. Perché tutto veniva fatto di propria iniziativa. E iniziammo … A un certo punto Wanda – così si chiamava – disse che dovevamo occuparci dell'Ospedale Ujazdowski. La maggior parte degli ufficiali fatti prigionieri era finita in questo ospedale. E lei lì collaborava con un gruppo di quel Consiglio del welfare e noi iniziammo lì. Aiutavamo a trovargli del cibo, vestiti, e iniziammo a organizzare le fughe dei nostri ufficiali da quell'ospedale. I tedeschi li sorvegliavano perché erano trattati come prigionieri di guerra. Così dobbiamo chiamare quegli ufficiali – prigionieri di guerra. Io conoscevo quella zona perché provenivo da lì, perché abitavo prima in via Czerniakowska e poi in via Hołówki, per cui conoscevo quel parco che oggi si chiama parco Agrykola, come le mie tasche. E le baracche erano collegate con questo parco Agrykola. Successivamente iniziammo a procurare oltre agli aiuti materiali (cioè non nel senso di denaro), anche i vestiti, il cibo, e anche le fughe. Ma dopo la prima fuga che aiutammo a organizzare, i tedeschi notarono che mancava qualcuno e da allora c'erano delle forti repressioni. Allora decidemmo di portare dagli ospedali dei cadaveri. E li portavamo… portavamo il cadavere su un carro. C'era questo ospedale, in cui dovevano fare dei lavori e mio padre riuscì a procurarsi un impiego: doveva consegnare i materiali edili. Mattoni, cemento, sabbia. E noi trasportavamo su quel carro la salma per pareggiare il numero delle persone. Era importante che il numero dei prigionieri fosse giusto. Quelli che dovevano scappare avevano solo un numero, non avevano fotografie, non erano stati catalogati bene. Quindi noi mettevamo quei numeri addosso ad altri e gli aiutavamo a scappare. Scappavano o su un carro, o a volte dovevano passare tra il filo spinato, o tra i cespugli. E andò avanti in questo modo fino alla chiusura dell'ospedale.
E iniziò la nostra attività, parliamo di quella parte legata alla beneficenza. In quel tempo inoltre usciva già il "Bollettino Informativo". Al nostro gruppo in quel primo periodo ce lo consegnava Mietek Wiącek. In seguito i nostri gruppi iniziarono a dividersi. Io rimasi nel gruppo che era in contatto con il capitano dell'intelligence militare prima della guerra, Tadeusz Wasilewski. Da questo momento il nostro gruppo iniziò a lavorare per lui. E Mietek – era il 1941 o la fine del 1940 – sparì. Non sapevamo cosa gli fosse successo. Si scoprì che era stato arrestato. In seguito venne fuori che era un traditore, per colpa sua molte persone erano state arrastate. Le nostre organizzazioni nacquero dal basso. Quando ci unimmo al gruppo degli scout, il nostro gruppo che era fatto di dieci o dodici persone, crebbe, divenne più grande. Capitava che, quando portavo un centinaio di copie del "Bollettino Informativo", non le consegnavo personalmente, ma le distribuivo tra cinque, sei, sette compagni e loro mi aiutavano a consegnarle. All'inizio era sciocco perché avevamo paura di consegnarle. Le infilavamo sotto le porte per informare i cittadini di Varsavia su cosa stava accadendo. Alle persone che conoscevamo dicevamo di passare il bollettino, una volta letto, ad altri. E fu così che si sviluppò il tutto, perché l'AK nacque dal consolidamento di tutti questi gruppi. Io iniziai già dal 1941 a lavorare in questo ambito di contatti. Andavo in posti diversi, a Grójec, a Radom. Come ho detto prima, iniziai a lavorare con Tadeusz Wasilewski. Un giorno mi disse: "Dobbiamo raggiungere l'aeroporto a Wolanów". Era prima che scoppiasse la guerra con la Russia. Credo fosse un paio di settimane prima. Perché i tedeschi costruirono due aeroporti: vicino a Grójec e a Wolanów. Quindi era un problema arrivare lì. L'unico modo per arrivarci era fingermi un operaio. Presi un carro con cavalli e andai da Varsavia a Radom, dove avevo un contatto. In via Zeromskiego c'era un negozio di fiori e lì lavorava la nostra persona di collegamento – Janka. Faceva lì la fioraia. Quindi in via Zeromskiego avevamo questo negozi di fiori. Lei aveva fatto in modo che io potessi accedere con il carro a quell'aeroporto, fingendomi un carrettiere. Ci misi tre o quattro giorni, non l'intera settimana. Notai che era un aeroporto enorme, che, ci atteravano, ad esempio, due o tre aerei al giorno. Tornai a Varsavia con lo stesso cavallo di Radom. Per arrivare a Varsavia ci misi due giorni. Inoltre, mentre tornavo a Varsavia, stabilì un nuovo contatto. Si trattava di un gruppo di Kielce – presi anche parte a un'azione nei pressi di Kielce. All'epoca tra Radom e Roszki venne ucciso su quel treno un generale tedesco. Presi parte in quella azione. Però non come partecipante diretto, ma come aiutante. Cioè con quel carro avevo portato i fucili, le munizioni e altre cose. Poi dovevo riprendere e riportare il tutto. Era questo il mio ruolo.
A un certo punto, per avere un contatto con il ghetto, ottenni dall'Amministrazione Controllata per i beni immobiliari degli ebrei a Varsavia un lasciapassare. Era stato l'avvocato Jarczyk. Si trovava in via Królewska, 6. Ebbi da lui questo lasciapassare e con quello potevo entrare nel ghetto. Aiutavo a organizzare il trasporto del cibo. Il ghetto aveva dei cancelli, che erano sorvegliati dai tedeschi. E lì gli ebrei si mettevano d'accordo con i tedeschi. Non so quanto gli pagassero. I tedeschi lasciavano entrare il carro con i viveri e lo scortavano persino verso la destinazione, perché la polizia ebraica era peggio della Gestapo. Quindi un tedesco scortava il carro verso il luogo in cui doveva essere scaricato. Chiaramente in cambio di mazzette. Si lasciavano corrompere in un modo o nell'altro. Conobbi persone che avevano il diritto di entrare nel ghetto e che consegnavano legna da ardere. Janek M.– non voglio dire il suo cognome – consegnava al ghetto la legna da ardere. Carbone, legna. Lui aveva una grande ditta di cavalli, perché non c'erano macchine all'epoca. E sotto ogni carico di carbone o legna c'era nascosto il cibo. E se lo avessero beccato perché aiutava gli ebrei... E come facevamo a portare fuori gli ebrei? Se si andava di notte, li si portava in quei nascondigli. Tutto era possibile in cambio di grandi somme di denaro. Quegli eberi delle fabbriche di Łódź, o i banchieri, trattavano con i tedeschi perché il 70% dei tedeschi si lasciavano corrompere. I tedeschi spesso li portavano fuori in macchina… guidavano la loro auto e dietro c'era una macchina, la macchina della Gestapo, e loro li trasportavano, in modo che per strada nessuno potesse fermarli. Sì, c'erano modi diversi per organizzare tutto questo. Ma nessuno lo faceva gratis. Dobbiamo dirlo. I bambini. Con le ragazze non c'erano problemi, ma i ragazzi, se erano circoncisi, era un problema. Per prima cosa bisognava andare nei villaggi, per procurarsi da qualche prete un certificato di nascita. Andavamo in provincia, intorno a Varsavia, da qualche parte come Góra Kalwaria o Grójec. Lì rilasciavano i certificati di nascita. Si facevano i documenti e a qual punto era possibile portare fuori senza problemi o un ragazzo o... Molti bambini, maschi, portati fuori dal ghetto, andavano nei conventi. I conventi aiutavano molto. Tutti conventi intorno a Varsavia; io conosco dieci o quindici casi, perché in parte ero coinvolto in prima persona. Gli procuravo i documenti o consegnavo i certificati di nascita, oppure portavo qualcuno al convento. Ma non è che portavo il bambino direttamente in convento, no. Lo portavo, diciamo, fino a Karczew e lì, a Karczew, lo affidavo a qualcun altro e quel qualcuno lo doveva portare fino al convento. Ecco perché abbiamo così tanti preti… Se li guarda, si vede che sono ebrei. Tutto questo costava. Quando si andava da un prete così, bisognava larsciargli qualcosa sul vassoio, affinché rilasciasse quel certificato di nascita. Perché correva dei rischi anche lui. Se qualcuno avesse notato che era stato lui a fare questo certificato e che qualcuno era morto e che poi un altro certificato era stato fatto, perché doveva annullare i certificato di morte... Doveva cambiare tutto nei registri per assicurarsi che non ci fossero discrepanze. C'era bisogno di tempo, dell'organizzazione, dei contatti... e dell'insolenza e della sfacciataggine. Di tutti i pregi e i difetti che una persona possa avere. Perché per avere dal prete un certificato di nascita, bisognava pagarlo. Successivamente, per fare la "Kennkarte", il prezzo medio era fino a mille zloty o di più. Poi le foto, trovare un fotografo. Il tutto doveva essere organizzato alla perfezione. Erano tante le differenze. Qui non c'erano persone affamate e nude sdraiate lungo la strada, o i cadaveri, mentre lì sì. E in seguito c'era questo contrasto assurdo. Se le dico che nel ghetto era possibile procurarsi delle banane, mentre a Varsavia questo era impensabile, mi crede? C'era un ristorante ebraico nel ghetto, nel '42, dove era possibile trovare di tutto. Cose che non si trovavano neanche nella parte ariana… Mentre fuori, per strada – solo cadaveri, corpi nudi… E la polizia… Quando entravo nel ghetto, avevo paura solo della polizia ebraica. Nessun altro. Perché nel ghetto non ho mai visto i tedeschi sparare agli ebrei. Mentre vidi con i propri occhi come la polizia ebraica uccideva gli ebrei. All'epoca non li capivo. Solo a Majdanek capì a cosa era dovuto. Quel gruppo di persone, quelli che gestivano il ghetto, volevano sopravvivere a tutti i costi. Del resto, non erano i tedeschi quelli che formavano colonne di ebrei da mandare all'Umschlagplatz. Lo facevano gli ebrei, quei poliziotti ebrei. Gli era stato detto che dovevano far arrivare alla rampa quattrocento ebrei, e loro portarono per il trasporto quattrocento ebrei.
La figlia di un avvocato, ebreo, – che si chiamava Holzkener –, sua figlia Maria, la portai fuori dal ghetto, quando venne costruito, quando fu costruito il muro, la portai a casa nostra, perché abitasse da noi, e per tutto il periodo, fino al mio arresto, abitò da noi. La lealtà era grande. Il fatto che noi mentenessimo dei contatti, che mia madre mentenesse dei contatti con gli ebrei era noto a metà delle persone che abitavano lì, in via Hołówki. Seppi da mia madre che dopo il mio arresto la ragazza visse per un po' da noi. In seguito ebbe paura. Non conosco esattamente il motivo, ma per un breve tempo andò via da mia madre. E poi – doveva essere il 1943 – a Varsavia i tedeschi annunciarono che gli ebrei che si sarebbero presentati volontariamente presso l'albergo Polski, sarebbero stati mandati per uno scambio in Turchia. Come scambio con i prigionieri tedeschi. Così mi raccontò mia madre. Mia madre disse che tutti la dissuadevano dall'idea di andare lì, ma lei accettò, perché era spaventata visto che dopo il 1942 la situazione era sempre più difficile. Dopo la rivolta del ghetto nel 1943 era acnora più dura. Questo era prima della rivolta nel ghetto. Nessun trasporto era mai diretto in Turchia. Ci volle un po' prima che le altre persone libere, – e a Varsavia c'erano alcune migliaia di ebrei dalla parte ariana,– realizzassero che quei trasporti non erano diretti in Italia ma a Treblinka, ma era troppo tardi, perché la maggior parte ormai era partita. E verosimilmente la portarono o a Bełzec o a Treblinka, e lì terminò la sua vita.
Ero appena tornato. Ero stato vicino a Radom. Tornai a casa alle 8 di sera. Quando uscivamo per un'azione, ricevevamo delle 'Kennkarte' diverse. Dovevo arrivare alla Stazione Centrale, ma all'ultimo, a Radom credo, cambiarono idea e ci dissero di scendere alla Stazione Ovest per restituire quelle 'Kennkarte' e prendere le nostre. La carta d'identità, come diciamo oggi. Tornai a casa. Avevo il raffreddore. Andai a letto. Il dottor Chojecki abitava sopra di noi, perché abitavamo già in via Hołówki. È quella via dove abitava il poeta Baczynski. Nello stesso palazzo. Lui abitava alla scala tre e io alla sei. Più tardi lì abitava il famoso redattore Tomaszewski. Cito i cognomi che sono famosi ancora oggi. Il palazzo è ancora in piedi. È lì dalle parti del Convento delle suore nazaretane in via Czerniakowska. Allora, tra la vie Gagarina e Bartycka c'è via Hołówki,1, un edificio enorme, 100 appartamenti. Tutti appartamenti enormi, con quattro o cinque stanze. Alle 10 bussa il custode. Mia madre va ad aprire la porta. Sei uomini delle SS entrano nell'appartamento. Perquisiscono la casa, la mettono sottosopra. Non trovano nulla. Ma, non ci crederà, c'erano due ingressi al nostro appartamento, e sopra l'ingresso principale c'era una nicchia coperta da una tenda. Una semplice tenda. E lì c'era una radio. Misero sottosopra l'intero appartamento, ma non guardarono dietro quella tenda. Si potrebbe dire che sia stato un miracolo. Allora, viale Szucha, il carcere di Pawiak e da Pawiak verso Majdanek. Da novembre mi trovavo in arresto, ero indagato. L'indagine terminò, non vi sto a raccontare com'era, perché tutti lo sanno. Quando dopo l'interrogatorio non eri in grado di tornare in cella con le proprie gambe, ma ti ci dovevano portare. La prova migliore di questo è che sono sordo all'orecchio destro, poi altre piccole ferite. Il 17 gennaio partivano i trasporti da Pawiak verso Majdanek. Era il 1943. All'arrivo a Majdanek, era il 17 gennaio 1943... Era inverno e le temperature raggiungevano i venti, trenta gradi sotto lo zero. Geli fortissimi. Ci portarono in un campo, di fronte ai bagni. Prima, con quei carri bestiame ci portarono da Varsavia a Lublino, poi ci fecero scendere, e dalla stazione andammo al campo. Lì, di notte, dovevamo toglierci tutti i vestiti. Perquisizione mentre noi stiamo lì in mezzo alla neve. Perquisiscono i nostri vestiti. Dopo la perquisizione ci rivestiamo. Andava bene per chi aveva dei vestiti caldi, ma altri, prigionieri di Pawiak che erano stati arrestati prima, in estate, avevano addosso solo dei vestiti leggeri. Per fortuna io ero vestito bene perché quando fui arrestato, mai madre mi diede dei vestiti caldi. In più mi aveva mandato qualcosa di caldo anche a Pawiak. Questo mi aiutò un po'. Ci portarono al campo numero tre. Fui assegnato al blocco X. Ce n'erano due, il nostro convoglio occupò i blocchi IX e X. Di notte nessuno sapeva niente, il blocco era vuoto, faceva freddo, avevamo fame. La mattina ci alziamo, apriamo la porta e davanti a noi ci sono già i convogli degli ebrei cechi. Noi arrivammo il 17 gennaio e quei trasporti dalla Repubblica Ceca, penso, molto prima di noi. Erano in fin di vita. Subito dopo quella prima notte uno dei nostri compagni morì. Lo portammo fuori e aspettammo. Non appena lo mettemmo per terra, che quegli ebrei cechi si avventarono su di lui come degli avvoltoi per srapparli di dosso i vestiti o qualunque altra cosa. Non mi scorderò mai quella visione. Spesso lo sogno di notte, di come loro si buttano su di lui, tutti, cadendo per terra per la fame, erano 'musulmani', nel gergo del campo. Ma il prossimo cadavere – il giorno dopo ce n'erano due – lo svestimmo noi. Vede, come in una sola notte cambiò la nostra mentalità. Quelli che non avevano vestiti caldi iniziarono a spogliare i cadaveri per avere qualcosa di meglio, dovevamo addattarci immediatamente alle nuove condizioni.
Stanisław Baranowski (1924 - 2014)
Resistenza
1939 - 1945: Warsaw (Polonia)
Armed Resistance
gruppi di resistenza
Main Tutelary Council (RGO), Armia Krajowa
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Original interview language (Polish)