Sono nata a Remschenig, vicino Eisenkappl, in una famiglia slovena; in realtà a casa di mia zia, dove mia madre lavorava come domestica. Là vivevano Michael Sluga, Karl Paulitsch e Franz Rotter, i figli di Katarina Sluga. Franz Rotter era nella ‘Wehrmacht’ tedesca; e così anche Karl Sluga, prima di passare ai partigiani. Michael Sluga si era subito unito ai partigiani invece di arruolarsi. Nel 1943 era diventato pericoloso. Katarina Sluga fuggì, raggiungendo i partigiani. Mia zia si interessava molto di cultura e politica. Aveva cominciato presto ad organizzare assemblee contro Hitler e a partecipare ad altre assemblee. E così divenne una sospetta per questioni politiche. Tanto che finimmo tutti per essere in pericolo. Si aspettava che potesse succedere qualcosa. Alcune persone l'avevano avvisata, tramite posta, di ritirarsi. Per lei era diventato pericoloso. Per questo si era rifugiata presso i partigiani pensando che sarebbe andato tutto bene per gli altri, se se ne fosse andata. Ma così non fu. Quando arrivò la Gestapo erano tutti ugualmente in pericolo. Li arrestarono tutti.
Io non ero in casa. Ero dai vicini. Quando la vicina ha visto la Gestapo andare a casa nostra, ci ha nascosti in una casetta là vicino e ci ha avvertito: “Ora non guardate fuori dalla finestra e rimanete tranquilli.” Ma noi bambini non l'abbiamo capito e non siamo rimasti tranquilli. Abbiamo continuato a guardare fuori dalla finestra e osservato quello che stava succedendo fino a quando non abbiamo visto che stavano portando via la nostra famiglia. Allora sì che ci siamo presi paura. Solo allora ci siamo resi conto che eravamo in pericolo. Allora raggiunsero la casa dei vicini e ci fu una discussione nel cortile e abbiamo avuto paura che potessero portare via anche la vicina e deportarla. Passò molto tempo, sicuramente un'ora fino a che tornò la pace. Allora arrivò la vicina con il piccolo e disse: "Adesso potete venir fuori." Fu un tale sollievo, che fosse venuta da noi. Non so cosa sarebbe successo, se noi, bambini piccoli, fossimo rimasti là da soli. Il più grande aveva sei anni, gli altri tre e quattro e io avevo cinque anni. Una mia cugina era rimasta a casa. Aveva una malattia contagiosa, la scabbia. E la Gestapo se n'era accorta e non l'aveva presa, avevano paura di venire contagiati. Anche lei è rimasta là ed è andata dalla vicina. La vicina ci disse che non potevamo rimanere da lei, perché aveva già cinque bambini suoi ed era rimasta lei stessa sola, con loro cinque. Perché avevano preso la figlia maggiore, la domestica e il contadino. Nel giorno in cui arrestarono la nostra famiglia, arrestarono così tante persone che una delle stalle vicino a Eisenkappl era piena. Li portarono via sui camion prima a Klagenfurt e da lì verso diversi campi di concentramento. Nemmeno il mio padrino, il vicino, tornò mai indietro. Morì a Dachau, mentre sua figlia e la domestica tornarono. Furono le uniche a tornare dal campo di concentramento.
Eravamo davvero disperati. Poi ci è venuto in mente che avevamo ancora una zia nelle vicinanze. Andiamo da questa zia, era zia Amalija. Così siamo andati da lei. Aveva lei stessa tre bambini, e l'uomo, suo marito, era ancora a casa. Beh, era in pericolo in verità. E siamo rimasti là. Ma la zia aveva un appartamento così piccolo. Per questo è stata lei a venire a casa nostra, badando ai piccoli degli animali e a noi, perché c'era ancora abbastanza da mangiare, a casa, per sopravvivere. Ma era una zona partigiana, c'erano combattimenti di continuo, era pericoloso stare vicino casa. E poi lei... Di giorno potevamo stare fuori, a casa e così via, mentre di notte ci rinchiudeva in cantina e se ne andava a casa. Il più piccolo se lo portava con sé, i suoi due li lasciava perché erano più grandi, e poi c'eravamo noi due con la cugina. E così dormivamo nella cantina. Era una cantina sottoterra, nella roccia ed era molto umida e fredda e completamente buia, perché tutto era stato otturato con paglia e coperte così che non ci potessero sentire se mormoravamo. Però non potevamo tossire o andare al bagno, ed era piuttosto brutto. E sentivamo sempre la gente camminare là fuori, senza sapere se fossero della Gestapo o i partigiani. Era molto emozionante ma anche molto pericoloso.
Alla fine di gennaio del '44 la zia ci ha preparati e vestiti e noi chiediamo, "Dove andiamo adesso?" I più grandi già sapevano dove saremmo andati, ma i piccoli no. E lei: "Beh, andiamo in chiesa." E noi: "In chiesa di notte? Perché andiamo in chiesa di notte?" "Perché oggi fanno la messa di notte?" E la zia: "È così e basta, fanno la messa di notte. Andiamo." Eravamo parecchio vestiti, con tutti i vestiti che avevamo, e abbiamo portato con noi anche una coperta. Tutto ci sembrava così avventuroso, ma per qualche ragione non avevamo paura. Già esser fuori da quella cantina, ci rendeva felici. Doveva cambiare qualcosa. E così ce ne siamo andati, ma nella direzione sbagliata. Non dove c'era la chiesa, ma verso i monti, proprio dall'altra parte. Allora il cugino maggiore, che aveva 14 anni, ricevette un fucile. Era tutto contento, perché insomma aveva un fucile adesso. Per allora avevamo già capito: va bene, stiamo andando in guerra. E in realtà di paura non ne avevamo perché c'erano degli uomini con noi, degli adulti. E così abbiamo camminato a lungo, molto a lungo. C'era così tanta neve, e la neve era così dura, che nulla ci poteva affondare dentro, per così dire. Luccicava tutto intorno, era una bella e fredda notte. Abbiamo camminato di sicuro tre o quattro ore quella prima notte. Fino ad arrivare ad un bunker in cima alla montagna. Nel bunker faceva molto, molto freddo, ma eravamo così stanchi da essere comunque felici di poterci sdraiare. Nonostante ci fossero solo felci su cui sdraiarci e una coperta per cavalli per coprirci. In questo bunker non so per quanto tempo abbiamo vissuto, ed era molto freddo e buio, da mangiare ce n'era troppo poco, e dovevamo rimanere in silenzio. Non poter parlare per me era davvero brutto. Ero una bambina così irrequieta e curiosa, era la cosa più difficile. Rimanere tranquilla il giorno intero, senza nulla con cui giocare. Nemmeno parlare, nulla da fare con gli adulti, anche loro parlavano davvero poco. Quanto tempo siamo rimasti là non lo so. Non mi ricordo nemmeno cosa abbiamo mangiato. Solo una volta mi ricordo quando un partigiano ci ha portato una forma di pane e una brocca di latte. Eravamo così felici, finalmente potevamo mangiare da scoppiare. E invece ce ne diedero solo un pezzetto e due sorsi di latte. Ero così delusa. Ho pensato: 'Perché ce n'è così poco?' Non avevamo certo capito che dovevamo fare economia. Beh, dopo un po' ce ne diedero ancora un pochino, ma si trattava di fare le razioni. E poi il bunker era pericoloso, perché era sempre pericoloso rimanere in un bunker troppo a lungo; lontani dai contadini, quindi l'approvvigionamento era pessimo, per cui siamo andati su in montagna, verso la Jugoslavia. Quella volta abbiamo camminato tutta la notte, penso. Tanto da addormentarmi, mentre camminavo mi sono addormentata. Quando eravamo fuori, nella notte, guardavo sempre e solo le stelle. Almeno era un passatempo, l'unico che avessimo. Di tanto in tanto stavamo in una stalla. Era bello, nella stalla faceva caldo e non sentivamo puzza, perché ci eravamo ormai abituati. L'importante era che fosse caldo e sicuro, ma quasi sempre stavamo nei bunker. Siamo capitati anche dove c'erano combattimenti. Una volta ci siamo nascosti nel bosco, per via di un combattimento in corso. Là un partigiano mi ha spinto dietro un albero e mantenuta a terra, perché non mi potessi alzare. Là hanno sparato così tanto che abbiamo solo visto lampeggiare tutta la notte. Come ne siamo usciti vivi, non lo so. Grazie a Dio ci siamo riusciti. Fino ad Aprile, là in Slovenia, si chiamava Solčava il posto, Logarska Dolina, c'erano di quelle battaglie, era così pericoloso che si decise che la zia tornasse indietro in Carinzia.
Siamo tornati in Carinzia passando per i monti, solo dopo che si era sciolta la neve, perché non c'erano altre possibilità. E siamo arrivati ad una fattoria dove viveva la nonna dei cugini. E la zia ha chiesto se potesse lasciare la figlia più giovane, siccome era così malata. E la donna le ha risposto che andava bene, sarebbe morta altrimenti. E io ho pensato: 'Ah, lei può rimanere e io invece devo ripartire. E qui fa così caldo.' Eravamo pieni ed era così bello. Per cui mi sono straiata sulla panchina e ho pensato: 'Cosa posso fare, per poter rimanere anch'io?' E ho fatto finta di aver perso i sensi. Ogni volta che mi tiravano su ricadevo. Fino a quando la donna ha detto: 'Beh, anche lei è troppo stanca, non potete portarla con voi. Che rimanga qui.' Questo mi ha probabilmente salvato la vita. Perché poi la zia ha proseguito fino ad un bunker a Ojstra, in Carinzia, vicino Eisenkappel, Là ci fu un tradimento e la uccisero. Le spararono. Gli altri riuscirono ad andarsene, ma lei... lei no. Se fossi stata là, non so cosa mi sarebbe successo. E alla fattoria si stava molto, molto bene. Ma eravamo comunque in guerra, e quella era l'ultima fattoria sul confine. C'erano combattimenti là, combattimenti molto duri.
C'era sempre il pericolo che potesse succedere qualcosa, e così fu. Un giorno arrivarono tre partigiani, amici del contadino e un parente, e rimasero per mangiare qualcosina. Il contadino disse: 'Ma non avete sentinelle.' E loro risposero: 'Andiamo via tra poco.' Si sono alzati e usciti e sono rimasti nell'atrio chiacchierando ancora un po'. E i bambini sono fatti così, si trovano sempre dove ci sono delle persone nuove. Io mi trovavo vicina a un partigiano e là è arrivata la polizia o la Gestapo, o come bisogna chiamarli e hanno... e hanno cominciato a sparare alla cieca. E così... due partigiani sono morti all'istante, il terzo era ferito. Mi ha seguita, quando sono fuggita attraverso la porta, in cucina, voleva uscire dalla porta. E gli hanno sparato. La pallottola ha attraversato il mio grembiule ma non mi ha fatto nulla. Allora mi sono nascosta in cucina, in un buco, sotto i fornelli. La Gestapo o la polizia è arrivata e ha infilato la mitragliatrice nel buco. Ma ha guardato dentro e visto che c'era solo una bambina, e mi ha tirata fuori. Ormai non avevo più paura. Non sentivo più nulla, penso che fossi... in stato di shock o qualcosa così. E sono dovuta andare sopra quei partigiani, mi ha fatta camminare sopra i morti. Uno di loro non era ancora morto, e pregava di esser fucilato e ci stava guardando con sguardo supplichevole. Ho dovuto camminare sulla sua testa. E ho ancora il ricordo esatto di quegli occhi, come li ho visti quella volta. Rimarrà sempre, probabilmente. E ogni volta che vedo degli occhi blu così, da qualche parte, mi ricordo sempre di quell'uomo, e mi crea problemi, non posso dimenticarmene. E così mi hanno portato dove si trovavano i due contadini anziani e mio cugino, e volevano... Uno di loro voleva solo spararci e bruciare la casa. Arrivò un altro e disse: "Non dovremmo farlo. Devono seppellire i partigiani e pulire tutto, e in due ore arriverà una pattuglia e non devono rimanere segni di quel che è successo." E fecero davvero così. Il contadino seppellì i partigiani e sua moglie pulì e lavò via tutto, ed era duro per lei pulire tutto e si mise a piangere forte, inginocchiata nel sangue. E noi due cugine, anche noi eravamo completamente a pezzi. Lei ci disse: "Voi rimanete in casa e non uscite e non dite a nessuno cosa sia successo." Così fu. Se qualcuno ci diceva ti tenerci qualcosa per noi, lo facevamo, chiudevamo la bocca. Abbiamo sempre veramente protetto i partigiani, da bambini, erano i nostri amici e i tedeschi erano i nostri nemici.
Verso la fine della guerra arrivò la notizia che la mamma era morta. E non so in che modo fossero venuti a saperlo. Era così e basta. Ma ero così fredda da non aver pianto, quando dissero che la mamma non c'era più. La mamma non tornerà mai più. Non avevo più lacrime. Non per mia zia, per nessuno. Non ho pianto una lacrima, per nessuno. Nonostante stessi soffrendo moltissimo per il fatto di non rivedere mai più queste persone, la zia e gli altri. Mio padre era già morto nel '43, in agosto, e me ne ero già completamente dimenticata. Ma era... Quando qualcuno mi chiedeva: "Sei triste che tua mamma non tornerà mai più?" Io rispondevo: "No, non sono triste." Lo dicevo per sfida, semplicemente, e per rabbia. Diventavo così furiosa, quando mi facevano queste domande. O non rispondevo o rispondevo freddamente: "No, non sono per niente triste." Nonostante in realtà fossi molto triste del fatto che nessuno sarebbe mai tornato, a casa nostra - mia. Erano quattro... Due zie cadute presso i partigiani, mia madre e una zia morte nel campo di concentramento di Ravensbrück. Poi due zii morti a Dachau, e un cugino caduto presso i partigiani; e ancora, uno zio in Russia, quindi in totale furono 12 persone a morire. E questi erano i miei parenti più vicini, quelli con cui sono cresciuta e che mi erano cari. Mia madre nel campo di concentramento. Mio padre era andato dai partigiani. Aveva combattuto da qualche parte in Finlandia o chissà dove, per Hitler. Dopo si era reso conto che era sbagliato, e tornato dalle vacanze era andato dai partigiani. Ma rimase con loro per solo 10 minuti e poi morì, perché qualcuno lo aveva tradito.
Siccome ero slovena, ecco, già c'erano conflitti. Avevo conflitti persino con altri sloveni. Non riuscivano a capire perché avessi tanto interessi politici, perché fossi tanto a favore degli sloveni e così via. E poi la delusione era stata tale, quando era finita la guerra ed erano arrivati gli inglesi e avevano continuato a trattarci come nemici, non potevamo nemmeno più andare in chiesa senza documento e così via. Venivamo discriminati anche dagli inglesi. Quando gli inglesi arrivarono per la prima volta alla fattoria, armati e rigidi, noi bambini -anzi, io - abbiamo pensato: "Ma la guerra è finita, perché la guerra continua?" Non avevamo capito, siccome la guerra era finita ma continuavano a venire uomini armati a casa. Nonostante prima avessimo considerato gli inglesi come alleati in nostro aiuto, in seguito fu una grande delusione. Ancora adesso non capisco perché gli inglesi si fossero fatti influenzare tanto dai nazisti, e noi eravamo di nuovo nemici: solo i partigiani e gli sloveni.
Sì, questo ha avuto conseguenze durature per me. Finché ero in salute, niente, ma quando mi ammalavo ne risentivo: deliravo, avevo sentimenti cattivi e paura delle persone e tutto il resto, e quando vedevo arrivare qualcuno in uniforme, mi nascondevo persino. I tedeschi rimasero nemici mortali per molto, molto tempo. Mi ci vollero molti anni per trovare un bilancio in me, e questo solo quando sono arrivata a capire che non si trattava di tedeschi, ma semplicemente di fascisti. E questi non erano solo tedeschi, ma di ogni paese possibile.
Romana Verdel (classe 1938)
Resistenza
Remschenig (Austria)
Partisan
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