Sono nato a Gavasseto. Nella mia famiglia da giovane avevo tre sorelle e il mio papà e la mia mamma erano dei vecchi socialisti, frequentavano e lavoravano per il partito socialista. Da quel ramo io sono sempre stato antifascista fin da ragazzino perché, lo posso anche dire, ricordo bene nel 1923, mi pare che avevo cinque anni, quando bruciarono la Cooperativa di consumo di Gavasseto. Mio papà e la mia mamma avevano sempre lavorato per costruire questa cooperativa, senonchè mi ricordo quando la notte sono venuti a svegliarli dicendo “sta bruciando la cooperativa!”, questa è una cosa che non scorderò mai. Da quel problema io a una certa età non sono mai stato iscritto al fascio, anche per altre ragioni perché i giovani di quel periodo che erano iscritti al fascio tutti i sabati avevano dei problemi di militare, corsi e non corsi, e io sono riuscito a non prendere mai la tessera per non frequentare quell’ambiente. Sono andato ad abitare a Villa Rivalta (qui dobbiamo entrare nel periodo delle Reggiane) e a neanche diciassette anni sono stato assunto alle Officine Reggiane: anche lì la lotta si faceva sempre, non era un bel vivere perché ogni cosa che si faceva in quel periodo dovevi sempre presentare la tessera del fascio e questo per me è stato un motivo in più per non essere d’accordo con i fascisti. Perché ogni cosa per cui ti presentavi, per qualsiasi bisogno che avevi dovevi sempre presentarti con la tessera del fascio in mano: allora io che non ci credevo, non la volevo e dovevo rimediare anch’io come potevo con i metodi che avevo ereditato dalla mia famiglia, dai miei genitori e anche da mie due sorelle che erano più vecchie di me. A scuola nei primi tre mesi si facevano le aste, si imparava a contare fino a 50, perché poi le maestre non erano come quelle di adesso, la mia maestra era di Casalgrande, poveretta veniva a piedi e andava a casa a piedi. La scuola era quella lì, cioè io posso prendere il mio caso, quando ho completato la terza elementare, che ero anche stato bocciato in seconda, non sono più andato a scuola: non era una cattiveria di qualcuno, è che allora quando uno sapeva leggere e scrivere aveva già risolto il problema: ti posso aggiungere anche qualcosa di diverso, io militare scrivevo per uno di Guastalla e due amici della montagna, perché non sapevano scrivere e avevano la mia età, cioè io avevo fatto la terza elementare, non è che fossi superiore però il mio problema era già stato risolto.
Non è che ci fosse, loro guardavano più gli anziani, il problema era quello lì, però dei fatti alle Reggiane… Io sono sempre stato antifascista anche dentro le Reggiane e come ero io c’era altra gente più sfortunata di me: perché dentro le Reggiane, si facevano gli aeroplani, hanno scoperto che mettevano la sabbia dentro ai cilindri, i vari Ganassi, Bagnacani, Catellani tutta gente finita in galera, ma loro avevano già una trentina d’anni, cioè gente che aveva già moglie magari anche con dei figli. Cioè lo sfogo era più su quella gente, noi passavamo inosservati, però non insistevano, il mio capo diceva sempre “quando tornano a casa i soldati, se tornano qua dentro la tessera gliela facciamo prendere se vogliono lavorare qui”. Loro mi insegnavano la vita, come si doveva fare, perché allora c’era la raccolta dei soldi, quello che si chiamava il Soccorso Rosso, a Rivalta lo gestivo io: prendevamo dei soldi e li davamo al partito. L’accusa più terribile era per i combattenti di Spagna, in parte era anche vero, però c’erano anche i nostri compagni di Rivalta come Fontanesi, quella gente lì che erano in galera, allora il partito come poteva cercava di dare una mano alle famiglie. Noi andavamo in piazza a vendere delle cose la domenica, facevamo delle lotterie, ad esempio in una di queste il primo premio era una gallina che ci aveva regalato un contadino, sempre per raccogliere i soldi che ci volevano.
Allora c’era una regola da rispettare, chi lavorava alle Reggiane, siccome lì si fabbricavano gli aeroplani (ce n’è uno ancora, se lo vuoi andare a vedere, all’aeroporto di Reggio è lì coperto, quello lì era uno di quelli che si faceva alle Reggiane): i giovani dipendenti delle Reggiane che andavano a militare avevano il diritto di andare in aviazione, invece i dipendenti della Lombardini Motori che facevano i motori per le navi, andavano in marina. Io sono andato militare, dopo da Bologna diamo andati a Orvieto, ho completato il CAR; finito il CAR ci hanno trasferito, io sono andato in un aeroporto in Roma, in un paesino che era una frazione di Roma che si chiama e si chiama tuttora Furbara: qui viene il bello, noi da lì i vari reparti andavano a far la guardia a Roma, allora siamo andati a far la guardia a Palazzo Venezia. Durante la settimana una notte ci andavano gli aviatori, una sera gli artiglieri, cioè erano scaglionati così. Siamo andati di guardia, mi ricordo che c’era un tenente nuovo che quando è venuto a prenderci al mattino alle 8 con un furgoncino ha detto “adesso giriamo un po’ per Roma perché io non l’ho mai vista”. Vado dentro all’aeroporto e c’è la posta, e mi danno la posta anche a me, vado nella mia camerata e mentre aprivo una lettera viene il mio tenente, un certo Santaroni di Ancona, bravissima persona perché mi ha abbracciato dopo quella storia lì e mi ha detto “questi signori hanno bisogno di te” ed erano tre della polizia. Il maresciallo per prima cosa ha preso la lettera che avevo in mano, e in questa lettera mia mamma mi spiegava questa parole “sei fortunato te che sei militare perché in questi giorni hanno messo dentro Pattaccini, Boiardi,ecc.” cioè cinque o sei persone con cui lavoravo sempre insieme in quelle cose lì. Lei poveretta mi ha detto queste cose spassionatamente proprio perché mi trovavo a Roma, e invece mi hanno beccato là. Di quella lettera lì non sono mai più rientrato in possesso e sempre dove andavo c’era quella lettera lì: si aveva tutti l’abitudine di negare che tu questo non lo conoscevi, mentre io non avevo niente da dire perché lì c’erano scritti i nomi. Un bel mattino partiamo alla stazione, a me avevano già tolto tutti i gradi, mi avevano tolto tutto poi avevo anche un po’ la barba lunga, ero un po’ malmesso. Si parte e durante il percorso, la gente era curiosa: in quel momento non è che ci fosse disponibilità su un vagone, in altri casi lo facevano ad esempio quando sono andato al confino, che eravamo in diciotto avevamo un carro per noi, si stava tutti lì e non c’era nessuno. Lì la gente ha cominciato a chiedere “cos’hai fatto?” e io ci tenevo anche a farmelo chiedere, così sono diventato popolare su quella carrozza, tutti mi davano qualcosa, da fumare… ; i carabinieri non sapevano cosa dire, sai non puoi mica andare a dire se uno ti offre una sigaretta, sono cose che se hai un mezzo per nasconderlo va bene se no così non puoi mica. Solo che a Firenze poi i carabinieri hanno deciso di scendere, il perché l’ho capito dopo, perché hanno interrotto la comunicazione che avevo con questa gente e nell’altro treno che abbiamo preso c’è stata meno confusione dopo, Bologna-Reggio Emilia. A Reggio Emilia mi portano subito in Questura, e là comincia la storia di questo, quello, quest’altro, però io avevo sempre il dramma di questa lettera, io certe cose non le dicevo neanche perché le avrei dette per niente, quando Pagliarello ti chiedeva una cosa aveva la lettera in mano non sapevi cosa rispondere. In Questura ho avuto una cosa non bella perché avevo le manette, ho visto con la coda dell’occhio che lui da dietro cercava di fare il furbo, io mi sono riparato e lui ha picchiato con la mano sulle manette, allora si è arrabbiato e mi ha dato due o tre sberlotti. Noi eravamo in coda, perché quello che ha fatto il mio nome, un certo Montermini che faceva il fornaio si è beccato quindici anni al tribunale speciale e ne ha fatti un bel po’, quindi noi eravamo gli ultimi e infatti le nostre condanne, io ho fatto quattro anni di confino. Non ti difendeva nessuno, ti difendevi te come potevi però quando entravi nel movimento non c’era niente da difendere, noi lo sapevamo anche prima che se ti scoprivano ti beccavi qualcosa, un paio d’anni li dovevi pur fare, eravamo avvertiti di quella cosa lì. Sono stato due mesi in carcere a San Tommaso a Reggio, poi a un bel momento hanno dovuto mandarci via perché hanno cominciato con degli arresti nuovi; eravamo 18-19, tutti ammanettati con una catena unica e quando siamo arrivati, a parte che i familiari erano stati avvertiti, qui alla stazione che eravamo tutti ammanettati c’erano anche dei familiari che piangevano a sua volta, e tu dovevi sacrificarti a ridere, a far finta di niente perché piangevano loro, se te gli davi una mano… Arriviamo a Castelfranco, il maresciallo, il capo delle guardie, è venuto il direttore e gli ha chiesto “dove li mettiamo questi qui?” perché era pieno anche là; ha chiesto “da dove vengono?” “da Reggio Emilia” e il direttore “se fosse per me li metterei tutti in un pozzo nero”. E’ una cosa buona anche questa qui eh? Dopo ci hanno messi nelle celle di punizione noi che non entravamo per punizione, però visto che era pieno c’erano celle particolari per una o due persone che c’era la porta con un bollettino e basta e c’era una finestrina là per aria, lì non sentivi e non vedevi mai nessuno, la guardia quando passava a controllare. Sono stato una ventina di giorni a Castelfranco.
Era una colonia agricola, il nostro indirizzo era “Colonia confinati Pisticci Matera”: là si è cominciato a lavorare, c’era una colonia agricola, poi questa storia qui se vuoi te la posso raccontare in due parole. Il dramma di quella colonia è che fu fatta perché avevano chiuso l’isola di Ponza, perché a Ponza, dove c’erano magari Terracini, Volponi, Cuccimarro, tutta quella gente lì che erano degli avvocati, e quindi succedeva che la gente, anche dal più piccolo contadino veniva fuori un mezzo intellettuale, perché studiavano capisci? Lì c’era per esempio Terracini, c’erano tutte le tavole da otto a mangiare nelle mense, una volta in una tavola loro non mangiavano mica, loro ti spiegavano quel che dovevano era il momento che lo potevano fare. Quella è stata la ragione per il 90% di chiudere l’isola di Ponza: ne hanno trasferiti una parte a Ventotene, una parte come l’onorevole Bigi, Bonini, sono venuti in colonia da noi a Pisticci. In quella colonia lì quando sono venuto via io c’erano quasi tremila confinati; dopo lì non c’erano politici ma di tutti i colori, c’erano poi le spie. Io ho adoperato lì per tre anni un trattore. Arriviamo alla direzione di questa colonia, poi ci mandano, c’era una baracca lì, eravamo 17 o 18 ci hanno messo in tre baracche. Quando sono andato dentro c’erano già degli altri che erano lì: “cari compagni, siamo fortunati che l’Unione Sovietica sta allargando i paesi del socialismo, quello è un popolo che è una favola”, io spiegavo tutte quelle cose lì, perché avevano occupato la Svezia, la Norvegia e la Lituana in quel periodo, allora io dicevo “hanno allargato i paesi de socialismo”. Al mattino un ometto alto così mi dice “vieni qua, da dove vieni?” “vengo da Reggio Emilia” “beh quello che hai detto ieri sera, ma sei convinto d’aver parlato bene? io gli ho dato un po’ del pazzo, ed era un certo Lonato un professore di Milano, con cui dopo abbiamo sempre avuto dei rapporti buoni via, anche con lui, poi c’erano dei parmigiani lì con noi. Non dico mica che mi son trovato bene, perché io ero confinato, avevo un vantaggio che ero più giovane degli altri allora capivo; avevo con me un certo Bonini di Villa Seta poveraccio, un uomo che avrà avuto quarantacinque anni, la moglie a casa con un piccolo podere in affitto, con la responsabilità dei ragazzetti, per dirti che avevano delle tragedie, però superate sempre senza difficoltà. Allora vengo a casa dal confino con i documenti, lasciano un documento che devi portare in Questura, io vado in Questura, busso alla porta (noi sapevamo poi già che era così), c’era uno dentro “avanti, chi sei?” “Porta” “Vai fuori”; torno a bussare, torno dentro, mi ha fatto andare fuori tre volte e poi mi ha detto “non sai che a venir qui devi salutare alla romana?” e gli ho detto “allora signore, io per meno ho fatto quasi quattro anni di confino” dice “io ti ci mando ancora” “magari, se io devo star qui a vivere alle sue dipendenze mi rimandi al confino che io sto meglio che qui” “Vai a casa, vai a casa!” cioè c’erano anche queste cose.
Dopo quando sono tornato a casa sono andato a lavorare lì, dopo tre mesi mi chiamano militare ancora, perché io ero militare prima e ho dovuto tornare a fare il militare. Mi han fatto fare il CAR a Bari per la seconda volta e poi ad un bel momento mi hanno mandato in Albania. Io non ci volevo andare e mi sono messo a rapporto con il colonnello, dicendo che io le ragioni le conoscevo, cioè tu non potevi avere un’arma, non avevi più nessun diritto in seguito alla condanna che hai ricevuto. Lui mi ha detto “guardi che io son dell’esercito però ho fatto la guerra in Albania con le camicie nere, quindi se ci son stato io ci vai anche te”. Sono quattro o cinque mesi che sono in Albania, eravamo a Durazzo noi, arriva un documento del Ministero che io devo rientrare subito in Italia perché non dovevo essere lì: si va al porto, ci imbarchiamo sulla nave e mi ricorderò sempre si chiamava Disentine quella nave, siamo stati lì tre giorni, e la nave non partiva perché c’erano i sottomarini inglesi, questo è quello che si diceva. Una sera lo vedevamo dalla nave, è scoppiata lì a Durazzo una grande festa, la gente che si abbracciava, dopo siamo scesi giù: Badoglio aveva detto che la guerra era finita, tutta quella storia lì, l’8 settembre. Lì con noi come truppe di occupazione c’erano anche una cinquantina di tedeschi, sempre roba dell’esercito, i tedeschi si sono spogliati anche loro poi hanno festeggiato insieme agli italiani; dopo otto giorni sono tornati a vestirsi da tedeschi. Dopo lì nessuno comunicava più con Roma, cioè anche gli addetti ai servizi, la foreria ecc., non riusciva più a comunicare con Roma perché non rispondeva nessuno e forse è stata anche una fortuna: i nostri grandi ufficiali, il generale Mondini che era di Parma, che era il generale della mia divisione e della Reggio, ad un certo momento hanno radunato tutti i soldati e han detto una balla, secondo me era una balla anche quando l’hanno detta, cioè hanno detto che avevano raggiunto un accordo con i tedeschi, che loro ci avrebbero portati a Trieste poi ognuno si sceglieva la propria strada. Io non è che ci credessi troppo, e infatti ci siamo imbarcati, eravamo quarantadue ogni vagone. Arriviamo sul confine e allora chiudono i vagoni dicendo che c’erano i partigiani. Alla mattina, io avevo un libriccino in cui c’era una cartina, eravamo in Austria, e ho detto “allora qua signori belli noialtri…”; sono andato a Neubrandenburg che è 200 km oltre Berlino, che poi ho avuto la soddisfazione, tre o quattro anni fa, che sono andato a visitare il mio campo dopo sessant’anni, son tornato a vederlo. Dopo siamo stati lì un periodo di tempo sempre sotto i bombardamenti: dentro al campo nelle prime due baracche c’era la direzione dei tedeschi eran tutti loro, poi c’erano due baracche di prigioniere, donne sovietiche che le facevano lavorare con pale piccole sulle ferrovie, poi c’erano i francesi e poi c’eravamo noi, non so quante migliaia di prigionieri c’erano. Siccome che io, questo è quel che conta non voglio mica scordarlo, ero accompagnato da due sottufficiali, cioè i miei documenti partendo dall’Albania li avevano loro due, credo che li avessero mandati anche per una licenza premio, non lo so perché erano uno di Cosenza e uno di Catanzaro: quando le cose son cambiate che c’era quella situazione lì, a me è venuta anche una paura perché sapevo che i tedeschi con i comunisti con andavano tanto d’accordo, e loro cominciavamo ad aver anche qualche esigenza di una cosa o un’altra. Una notte hanno cercato trenta, loro erano a dormire in un altro angolo del capannone, perché essendo ufficiali gli avevano dato dei letti a castello mentre noi dormivamo sulla paglia lì per terra, sono riuscito a sgattaiolare via, che dopo non ho più saputo niente e forse ho fatto male, perché mi era venuta paura se non gli danno i documenti in mano a una guardia, perché lì erano cattivi, perché passavano al mattino con una parola che ho imparato subito “Aufstehn”, abbiamo pensato cosa ci sarà da fare, ci sarà da prendere il caffè… Dopo sono venuti dentro in quattro o cinque con delle manette, dovevi alzarti però noi non sapevamo quella parola lì. Cioè erano già cattivi anche lì, e così io ho abbandonato e sono andato in questo campo, che avevano bombardato un grosso fiume, abbiamo cominciato a lavorare così; io di loro non ho più saputo niente perché quello lì praticamente era un campo di smistamento, tutti i gironi arrivavano cento, centocinquanta o duecento prigionieri, era sempre un continuo arrivare lì con i treni. Dopo non ho più saputo niente. Io ho fatto quattro campi di concentramento in Germania, che l’ultimo dove poi ci hanno liberato si chiama Wickede che era poi in Westfalia, in provincia di Dortmund, l’ultimo campo è stato quello lì. Normalmente la gente poi dormiva anche subito, ma perché noi nel periodo più lungo che era ad Hagen In Westfalia ancora, era in provincia di Dortmund che era una grossissima città. Lì dove c’era il campo a Wickede avevi la sveglia alle 5 del mattino, dovevi fare 2 km a piedi per andare in stazione, poi 70 km di treno, poi da là dovevi vagabondare dalla stazione per andare sul tuo lavoro, e alla sera a volte tornavo a casa alle nove. Allora succedevano anche delle cose mica belle, poche volte però è successo: ad un certo orario non so dieci e mezza vengono a fare il controllo, tutti nel corridoio, c’era chi dormiva sotto in un angolo, c’era anche un malato, allora ci mandano tutti fuori a far ginnastica. Avevi gli zoccolo di legno, magari li perdevi giù per la scala, c’erano sempre tre gradini in tutte le baracche, poi stavano delle ore a farti girare, delle volte pioveva anche; io dico che è successo poche volte però sono successe anche queste cose. Io sono stato arrestato, cioè ci hanno caricati loro sui treni il 16 settembre e sono tornato a casa dopo due anni il 14 settembre, perché noi essendo in quella zona della Ruhr, le fabbriche di guerra erano tutte lì: c’erano quelle fabbriche dei carroarmati che gli americani per andarci dentro usavano quelle famose bombe a grappolo, bombardavano tutte le notti, io non scappavo neanche più perché quelli che scappavano correvano sotto alle bombe. Noi abbiamo fatto quella trafila lì.
Là da mangiare ti davano un pane, uno di quei pani neri alti, quei panoni così però li dovevi dividere in cinque, ti toccava una fetta e fino a sera non ti davano niente, ti davano quella sbrodaglia lì ma il pane era solo quello. Era un tesoro, ne mangiavo un pezzettino per volta per assaggiare un po’ di pane, la fame era tremenda e quando andavamo a lavorare ad Hagen d’inverno c’era un freddo da morire, tutto il giorno là in mezzo, eravamo vicino ad un fiume e c’era un’aria che era una cosa impressionante. Loro ti davano a mezzogiorno quella sbobba lì, che poi ho conosciuto lì la margarina, sia le bietole, le rape tutta roba macinata cotta così, condita con un po’ di questa margarina che agli ultimi toccava anche fredda, io poi che non volevo sempre stare là ammucchiato, ero sempre in fondo mi toccava sempre la fredda. Delle volte, quando davano il “rompete le righe”, per divertirsi anche loro saltavano tutti la cavalla, tutte le bustine (i berretti) dentro alla minestra, era un modo per cui c’era gente che partiva di testa. Il mio caporal maggiore, un certo Palazzeschi Mario di Arezzo, un ragazzo che non ha mai avuto niente, anzi se io ero sano credevo che gli altri fossero più sani di me, ha cominciato a piangere “non ce la faccio Carlo, non ce la faccio..” “Ma lascia stare…” in tre mesi è andato. Invece sai cosa ho sempre detto io? Che dovevano morire prima loro due di me, il signor Benito Mussolini e il signor Hitler, pensa se loro sapessero che sono ancora qui, che ho più di ottant’anni! Dico qualcosa anche per ridere un po’…
I francesi quando noi siamo arrivati là, perché noi siamo dei furbacchioni ci hanno chiesto “voi che venite da fuori, cosa si dice, la guerra quanto durerà?” - “un mese o due mesi” gli rispondevamo, loro hanno detto “durerà ancora due anni” e ci hanno preso loro, due anni è durata. Una donna, magari anche incinta, a lavorare con pale e picconi sulla ferrovia, guarda che sono lavori pesanti quelli lì. Là non è che controllassero se ne erano morti dieci, non è che alla sera facessero l’appello per vedere chi c’era e chi no, a loro non interessava, anche come lavorare, non è che te sul lavoro dovessi dare tutto, tu dovevi essere sul lavoro però. Al mattino quando facevano la sveglia alle 5, al mio campo, ti dovevi alzare e andare via con gli altri, poi dopo quello che facevi durante la giornata tanto non è che potessi andare da qualche parte, non c’era un controllo; a lavorare anche che tu non avessi fatto niente tutto il giorno però dovevi stare lì sul lavoro. Erano zone dove c’era molto freddo, con delle donne sovietiche ma anche dei maschi.
Qualcuno degli interpreti anche italiani te lo spiegavano anche loro che c’è una possibilità che Mussolini e Hitler hanno deciso che gli italiani non devono essere prigionieri in questa nazione i famosi IMI, cioè sulla divisa che avevi ci doveva esser scritto IMI (Internati Militari Italiani). Noi, a cominciare da me, due marescialli della finanza sardagnoli, cioè in quattro o cinque, nel mio campo c’erano in 550, siamo riusciti a non far firmare nessuno, perché mentre loro dicevano “vi mandiamo in Italia e poi lì c’è la Monte Rosa che vi aspetta”, noi la Monte Rosa immaginavamo ma non sapevamo che cos’era, sai cosa gli dicevamo noi? “Non firmiamo ragazzi perché sul fronte russo ci mancano le forze, mancano i soldati, loro ci mandano sul fronte russo!”. Non ha firmato nessuno, senonchè il capo dei capi „Lagerführer“ che comandava il campo gli è venuta una rabbia una volta, te lo dico in tedesco “Diese Leute morgen früh kein Brot”, tre giorni senza pane, non ce l’hanno mica dato per tre giorni.
Io mi ero messo in testa che volevo tornare a casa, perché non era mica giusto che facessi quella fine lì; ho mangiato male come gli altri, nonostante il dottore adesso continui a dirmi “quei due anni in Germania ti hanno fatto bene, ti hanno aiutato a sopravvivere”, io non facevo niente, però non mi sono mai preoccupato, non ho mai avuto il pensiero di non venire a casa. Io ho mollato gli ultimi due o tre mesi: non ricordavo più la mia famiglia, cioè era un pensiero che mi era andato via, questo non lo capivo neanche io. Mi ero stancato, però anche nella mia stanchezza ho cercato di sopravvivere, il mangiare era così per tutti. Per la storia del peso, quando senti la gente dire trentotto chili, quaranta chili, io non mi sono mai pesato, sarò stato cinquanta chili, cinquantacinque, io so che ero magro, però sono stato con la mia magrezza; ho visto della gente morire perché si trovavano male, piangevano, c’era anche della gente che aveva moglie e figli, quelli erano problemi diversi. Nel nostro campo gli americani sono passati, sono rimaste le loro guardie ma noi andavano dove volevamo; avevamo due ragazzi, un certo Belloni si chiamava, di Ravenna che facevano i macellai, allora hanno cominciato a trovare dei vitelli, non è mica una balla, poi li ammazzavano e li mettevano, sai che loro hanno quei barili della birra, lì dentro al fresco. Dopo 15 o 20 giorni avevamo la carne fresca, loro tutte le notti andavano a trovare qualcosa, dopo ci eravamo messi a posto con il mangiare.
Son tornato a casa in treno, allora siam partiti un mattino e siamo finiti al lago di Costanza, in Svizzera: quanto siamo arrivati il treno non funzionava più, siamo stati lì due giorni poi abbiamo trovato un altro treno, in una giornata e mezzo siamo venuti a Como, perché poi era tutto distrutto, c’era un binario che andava ma non da fare i furbi. A Como siamo stati lì due giorni perché non c’era il mezzo per raggiungere Milano; quando siamo arrivati a Milano ci hanno detto “la colonia per l’Emilia Romagna è partita”: facevano con dei camion vecchi, con quello che avevano perché il ponte della ferrovia a Piacenza era stato bombardato, allora siamo stati lì due giorni poi qualcuno ci ha suggerito “bisogna che andiate in treno da Padova a Ponte Lagoscuro, che là il treno passa il Po”, infatti abbiamo fatto quella linea lì, siamo andati a Padova, poi Ferrara poi siamo andati a Bologna. A Bologna dentro alla caserma dove dovevamo stare due giorni, sono andato fuori con altri due o tre e abbiamo trovato un pullman della SARSA: “Va a Reggio, ci prende su?” “Perbacco”. Poi quando siamo stati a Castelfranco il bigliettaio gentilmente ha detto “bisogna che vi faccia il biglietto” e noi “ma non abbiamo un soldo”; “va bene non vi faccio scendere però quando siamo in stazione a Reggio (fermavano sempre davanti al teatro Ariosto, come faranno anche adesso) venite dentro alla SARSA. Siamo entrati e ha detto con il suo capo “questi non hanno pagato il biglietto perché dicono che vengono dalla Germania.” e lui “sei un rimbambito, io ho detto che vadano a casa loro!”. L’ha pagato così. Dopo ci siamo imbarcati a piedi, ce n’erano due di Correggio. Abbiamo chiesto un po’ anche al direttore della SARSA perché non sapevamo niente di niente, io della mia famiglia non conoscevo niente. Andiamo a casa ma eravamo a piedi, allora si usava ancora andare a piedi, e per imboccare lì dove c’è l’ACM adesso, mi sono fermato un momento perché ero stanco, passa una signora in bicicletta e mi ha detto “ma te sei il figlio di Porta?” e le ho detto “si” lei dice “ostia sei in ritardo" - “insomma sono arrivato adesso” - “vado a dire ai tuoi che ti vengano incontro”. “Allora se conosci i miei dimmi com’è la situazione” dice “ci sono ancora tutti, e tuo fratello era appena tornato dalla Svizzera”; allora è andata a casa mia a dirglielo. Ricordo sempre la mia mamma che mi è venuta incontro di corsa, che non ne poteva più neanche lei, ed è stata l’unica volta che ho pianto, e mi è andata bene adesso perché quando racconto queste cose piango sempre, stamattina sono riuscito a non piangere. Dopo è finita la storia, ho preso i collegamenti qui cercando il posto di lavoro, mi erano state offerte tante cose che non ho accettato, sono poi tornato al mio lavoro che era diventata la Giglio, le Latterie Cooperative Riunite, dove ho fatto gli ultimi 36 anni là dentro.
L’ANPPIA è un’associazione nata nel 1948 che a Reggio Emilia conserviamo ancora i documenti per duemila e rotti antifascisti e ci teniamo a curare quel lavoro lì; ANPPIA vuol dire Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, che noi dove possiamo raccontiamo dappertutto e facciamo in modo.
Carlo Porta (1919 - 2007)
Resistenza
1938 - 1945: Reggio Emilia (Italia)
Unarmed Resistance
gruppi di resistenza
Soccorso Rosso
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Original interview language (Italian)
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