Io sono nata a Roncolo di Quattro Castella il 21 maggio del 1921. La mia famiglia allora era una famiglia contadina, ma l'origine della mia famiglia non è contadina. Mio nonno aveva fino a vent'anni studiato come maestro di musica e aveva fondato la banda musicale di Vezzano. Mia nonna era la figlia del segretario comunale di Vezzano, che aveva avuto quel posto in quanto aveva operato, lui e il fratello, Baroni Radighieri, per l’unità d’Italia. Per cui avevano entrambi fatto le scuole molto più superiori di quelle che non facevano normalmente i contadini e avevano anche un determinato livello culturale; ad esempio mia nonna pur essendo una donna tutti i giorni leggeva il giornale, questo mio padre me lo riportava sempre come esempio, l’importanza anche per la donna di avere una determinata cultura. Si sono sposati che avevano poco più di vent’anni, giovanissimi, non avevano altra possibilità di occupazione e si sono messi a fare i contadini; però la generazione di mio padre è stata l’unica che ha fatto i contadini, fino ad una determinata età, perché poi hanno fatto altre scelte.
Questo dominio fascista non risparmiava nemmeno noi bambini. Ecco la scuola fa un concorso: il più bel disegno. Io sono brava, in disegno ero veramente brava. E poi guarda ironia della sorte, avevo fatto un bel fascio con una bella corona di alloro attorno. Dipingerlo, cioè colorarlo con i pastelli se non hai la mano abbastanza... cioè se non stai attenta non viene un bel lavoro; invece la cosa era diventata veramente bella per cui fu valutato il più bel disegno delle scuole elementari di Castelnovo di Sotto; ci chiamano al teatro Ausoni, allora c’era per il premio... il podestà avrebbe dovuto venire a premiarci; c’era presente, perché in tutte le iniziative era sempre presente tutta la gerarchia dei fascisti, premiano i bambini... io sono l’ultima perché ho il primo premio di tutte le scuole. Mi chiamano, io vado su per la scala, arrivo sul palco... il dottore Ganassi, questo lo devo dire perché era un amico di famiglia, e io tutte le sere gli portavo il latte di una mucca che praticamente avevo allevato, anche tutti noi, perché lui aveva un bambino ma non riusciva, gli morivano tutti piccolissimi i bambini, e noi gli portavamo questo latte... e lui dice: “Ah, ma te non hai la tessera delle piccole italiane”. Dico: “No, papà non me l’ha presa”. “Ah beh allora il premio non te lo diamo”. E mi manda indietro. Una bambina di 10-11 anni, come fa a spiegarsi che vale... come fa a capire che vale più una tessera che la sua capacità di operare, di studiare, di essere brava, ecc. Io sono andata a casa piangendo, mia madre stava dando da mangiare ai maiali, poveretta, si è trovata... ho detto: “La colpa è tua, non ho avuto un premio perché non mi avete preso la tessera”, no? E lei m’ha dato un bel manrovescio e mi ha detto: “Adesso almeno piangi per qualche cosa”. Forse in quel momento si è trovata in difficoltà a darmi una risposta, anche perché i genitori stavano molto attenti a parlare con noi bambini, perché il bambino facilmente gli scappa detto, anche con altri, e non si poteva, cioè... se tu dicevi male dei fascisti c’era il rischio e pericolo che se lo esprimevi fuori dalla casa, i genitori venissero puniti. E per cui anche nelle stalle quando parlavano, dicevano: “Ragasol, vueter guai s’adgiv quèl”, cioè “bambini state attenti, non dovete dir niente di quello che sentite in casa”. Per cui fin da piccoli sapevamo che dovevamo tacere, che era pericoloso per noi e per la famiglia fare qualche cosa. Poi io vengo a Reggio, la famiglia si sposta a Reggio perché i ragazzi studiano, cioè mio fratello aveva fatto il ginnasio a Parma, in collegio a Parma, e cominciano... c’è l’esigenza di avvicinarsi alla città, hanno comperato una casa lì in via Dalmazia, e anche per me la vita cambia completamente; perché dalla tradizione, dalla cultura contadina che è fatta di conservatorismo, di tradizionalismo per cui “stai attenta a quel che dici”, “chissà che cosa dicono”... poi le donne costantemente considerate una nullità, infatti “taci che sei una donna” me lo sentivo dire anche in casa mia. Mia madre poi, poveretta, ne aveva un culto di queste cose. Qui incontro invece le donne che vanno a lavorare, e soprattutto via Dalmazia è una via dove abita l’élite operaia della città. Vi erano i tecnici delle Reggiane, i tecnici del gas, i tecnici dell’acqua, cioè... c’è un tipo di classe operaia molto consapevole, molto matura, molto preparata, e gli anziani siccome io sono sempre stata molto curiosa, io siccome avevamo un ristorante, allora si chiamava trattoria, e avevamo il bar, il gioco da bocce, ecc. io pur ragazzina, perché avevo… siam venuti nel ’38 a Reggio, avevo appena 17 anni, ero estremamente curiosa e gli uomini anziani mi avevano preso a ben volere, e hanno cominciato a spiegarmi quello che io sapevo… relativamente, cioè cos’era praticamente il fascismo, che per me era solo violenza, era solo ignoranza, caratteristiche peculiari del fascismo, ma esisteva anche una ragione dell’esistenza del fascismo; e hanno cominciato a spiegarmi questo. Loro erano la maggior parte socialisti e comunisti, ecco… io ho cominciato a capire, ad avere una dimensione diversa della realtà e muovermi di più in questa dimensione. Allora qui siccome io sono, ero sempre nel bar, i giovani che venivano eravamo diventati amici; quando sono partiti per la guerra io ero diventata il loro punto di riferimento: ti scrivevano dall’Africa, ti scrivevano dalla Francia, ti scrivevano dalla Russia e ti chiedevano notizie dell’uno e dell’altro… cioè io ho cominciato praticamente ad avere una dimensione della guerra diversa di chi poteva avere solo la corrispondenza con i famigliari, no? Con i ragazzi della famiglia.
Allora Torelli, che era un vecchio antifascista, era perseguitato, aveva fatto il carcere ecc., ed abitava in casa mia… viene, mi dice: “Veh Anita, devo dirti alcune cose”. Dice: “Quello che state facendo – perché lo facevo io, Maria Montanari, mia cugina, sai cioè poi eravamo poi anche in un gruppo di amiche abbastanza forti, abbastanza combattive, ecc… eravamo amiche ma avevamo le stesse idee, lo stesso modo di concepire la vita… e dice – Quello che avete fatto fino adesso è molto importante, che c’avete anche sorpreso”. Perché già era uscito il proclama dei tedeschi che diceva che chi aiutava i renitenti alla leva e i soldati a scappare, venivano condannati: campo di concentramento o fucilazione. Cioè non era, capisci, una punizione blanda quella che ti promettevano. Dice: “Voi dovete cercare di portare fuori tutto quello che può servire a un esercito clandestino, perché la nostra intenzione è di mobilitarci come popolazione, cioè di mobilitare la popolazione a combattere e a scacciare i tedeschi e i fascisti che stanno rialzando la testa, di scacciarli e di mandarli fuori dall’Italia”. Per cui abbiamo cominciato a portare fuori la roba, però prima di dirvi come portavamo fuori la roba, vorrei dirvi un fatto che è avvenuto che per me è stato direi l’elemento determinante nella scelta di continuare questo lavoro e di partecipare alla guerra di liberazione. Io… suona l’allarme, ma 3 o 4 giorni dopo l’8 settembre, suona l’allarme… scappiamo in bicicletta. Dopo un po’, cessato… non si sente niente, torniamo a casa, cessa anche l’allarme e torniamo a casa. Come arrivo in via Dalmazia, all’inizio, perché scappavamo sempre verso Codemondo o verso la Canalina... quando arrivo all’inizio di via Dalmazia dove abito io, c’è tutta l’SS che piantona le case. Io arrivo davanti a casa mia, volto, sono in bicicletta, volto... però davanti a casa mia c’era una... lo chiamavamo “la Reggia” perché era tutto lastricato dove noi mettevamo d’estate i tavoli con le sedie, ecc. C’è una formazione tedesca con una mitragliatrice “Alt!”, e io dico: “Casa mia. Io, casa mia! Io! Casa mia!”. E quello: “Alt, raus!”. Io, che non capisco un’acca di tedesco, però raus voleva dire “togliti dai piedi”, cioè “va via”, io continuo: “Ma io, casa mia... fare da mangiare per i miei fratelli”, e lui: “Raus! Schnell, Schnell!”. E mi punta il fucile. Allora io, quatta quatta, torno indietro con la mia bicicletta e incontro la Maria, che su per giù ha avuto la stessa cosa; senti, è stato un momento... non è la paura del fucile, ma in quel momento ti sei resa conto che tu non vali niente, che uomini in divisa che sembravano tanti scarafaggi, in divisa, che parlano una lingua che tu non conosci, perché non sono nemmeno del tuo paese, hanno non solo il potere di impedirti di entrare in casa, ma hanno anche il potere di ucciderti, per cui tu sei niente nei confronti di loro, per loro vali meno di un insetto. Bada che è una cosa terribile, cioè non era... forse non eravamo preparati a questo, non eri preparata a questo, però è la reazione di una ragazza di pochi anni che già ha sofferto bombardamenti, ha sofferto vedere i soldati presi fatti prigionieri, i nostri uomini anziani che avevano fatto la Prima Guerra Mondiale che dicevano: “Ma se li portano in campo di concentramento...”. Che io... papà diceva che a mio fratello ci dovevamo sempre mandare da mangiare perché se no lo facevano morire di fame, questi che sono delle belve chissà che cosa gli fanno, capisci? Bisogna cercare di aiutarli. Cioè di fronte a queste cose che ti fanno soffrire maledettamente, perché in definitiva sono dei ragazzi come te, che non hanno, cioè non sai qual è il loro futuro, cerchi di aiutarli... metti in pericolo anche la tua vita per aiutarli. Noi andavamo per la strada quando vedevamo un soldato lo accompagnavamo fuori dai posti pericolosi, perché c’erano ovunque i posti di blocco, capisci? E addirittura gli uomini, i nostri uomini anziani, con le biciclette, li mettevano sulla canna e cercavano di portarli (perché andavano a piedi, poveretti), li cercavano di portare per un periodo di strada, per un percorso di strada che potessero almeno riposarsi ed essere fuori dai pericoli. Ti trovi di fronte a questa realtà che ti colpisce immediatamente... ti rendi conto che veramente è una cosa orrenda, è qualche cosa di terribile che ti colpisce e ti rendi conto quanto sia valido ciò che ti hanno detto gli antifascisti. Perché fino a quel momento, come dire, non era la ragione politica che ci portava a salvare i ragazzi, ecc... era più l’umanità, capisci? Tu donna salvi il figlio di un’altra donna, era questo che ci spingeva anche a incorrere in fatti pericolosi; ma da quel momento ti rendi conto che deve essere qualche cosa di consapevole... per cui io non mi sono più ritirata nei confronti di tutte le cose che mi chiedevano di fare.
Papà in casa risolse il problema delle munizioni; siccome lui lavorava il vino, lo imbottigliava, ecc. Ha risolto il problema... noi in cantina avevamo dei quadrati di bottiglie pronte per andar via, tutte piene... allora lui aveva fatto un buco, in quel buco lui imbottigliava le pallottole, poi le tappava, e in quel buco ci mettevamo la nostra mercanzia, cioè le nostre armi, tutto quel che avevamo. Poi in cucina, siccome avevo le mattonelle, e essendo a pianterreno, la cantina era a volti... voi sapete che i volti fanno così e poi fanno così... allora nel mezzo c’è un vuoto, cioè tra un volto e l’altro c’è un vuoto. Papà aveva tolto una mattonella proprio sopra uno di quei vuoti lì, e lì ci mettevamo tutte, facevamo scorrere dentro le armi, le rivoltelle, i fucili, tutto quello che avevamo lo facevamo scorrere lì dentro... mettevamo la mattonella e ci tiravo sopra il cantarano, cioè il coso dove ci facevamo il pane. Per cui capisci tutto era... era veramente difficile poter vedere che lì ci fossero delle cose pericolose, perciò era diventato il punto dove tutto arrivava. Però Torelli a un determinato momento dice: “Laila, non è abbastanza quello che fate, perché voi fate tanto per i partigiani e per noi, però bisogna che cominciate a prendere coscienza di quello che sarà il vostro futuro”. “Boh, speriamo che sia un po’ più buono di quello di adesso, però”. E allora dice: “Se sei d’accordo, prepara una riunione di tutte quelle che lavorano con te, e io faccio venire un dirigente comunista, se siete d’accordo”. Perché per noi, capisci, i comunisti e i socialisti, non facevamo differenza, che ne capivamo noi di politica? Non l’avevamo mai fatta. Cioè il fascismo tu dovevi solo leggere quello che ti davano loro, non avevi neanche il diritto di commentare. E allora abbiamo fatto la prima riunione con Paolo Davoli, cioè prima mi ha fatto incontrare con Paolo Davoli, il quale mi ha spiegato quello che era importante per le donne, che dovevano discutere quello del loro futuro, perché quando avremmo vinto la guerra, avremmo fatto le elezioni che le donne dovevano partecipare, cioè, capisci, spiegava che le donne dovevano conquistare i medesimi diritti degli uomini. Figurati quanto mi è... ci andava bene, per noi, questa faccenda; cioè, capisci, in quel momento ci siamo resi conto che il nostro futuro poteva essere cambiato, che non era sufficiente operare come partigiane, ma bisognava avere anche una certa consapevolezza. E solo che eravamo talmente ignoranti che guarda era una cosa triste proprio, ho fatto due gruppi di difesa della donna con... e veniva un operaio, credo che fosse un meccanico, del Bloch, abbiamo fatto due o tre riunioni.
Mi parla e mi dice: “Guarda, noi abbiamo bisogno di una che ci porti su quello di cui abbiamo bisogno, in particolar modo della munizione e delle armi. Te la senti di fare?”. Dico: “Sì, lo faccio, lo faccio”. Allora c’erano i fratelli Ferrari che avevano una macelleria vicino al cinema D’Alberto, due fratelli erano in montagna nei partigiani nel distaccamento Don Pasquino, e uno invece era nei fascisti e... ho detto: “Beh, quand’è finita la guerra che ci fate a vostro fratello?”. Dice: “Per Dio, è lì perché ce lo abbiamo mandato noi, sta buona. Lui ha avuto fortuna che era fascista, dice, l’han preso volentieri e ci porta, ci manda fuori delle armi. Tu, quando ti diciamo dove devi andare, vai che lui ti consegna della roba”. Allora il punto di riferimento era il diurno di Reggio, è un albergo che è dietro alle Farmacie Riunite, c’era un albergo lì, che poi credo che adesso si chiami “Reggio”, non lo so... comunque io entravo lì e l’aspettavo, lui arrivava, mi dava un pacchettino, ci salutavamo e andavamo. Normalmente eran delle rivoltelle, che dava. Io se le rivoltelle erano due le portavo da sola perché avevo un bel petto e in mezzo al petto faceva da porta rivoltelle che era un piacere... poi me le legavo alla vita strette strette, alla vita, e in bicicletta andavo fino a Cerezzola, andavo fino a Currada, li portavo fino a Currada perché avevo l’appuntamento con Marco, Sergio Beretti si chiamava Marco, gli consegnavo la roba poi tornavo indietro. Alle volte c’erano delle pallottole, alle volte portavo su del sale, ecc. Un giorno... la Maria Montanari, sua cugina che lavorava alle Reggiane, era riuscita a recuperare un radiotrasmittente di un aeroplano... era grande così, alto così... era a casa mia intanto intanto... siccome sono quelli che fanno “pì-pì pì-pì” non era la radiotrasmittente normale, cioè che ci sono adesso... era non so come si chiamano, quelli che c’è il bottone e schiacci, e che alla guerra, durante la guerra era quello praticamente in dotazione agli eserciti. Allora c’è da portare su in montagna. Come facciamo a portarlo su in montagna? Ci mettiamo d’accordo io e la Maria e facciamo in questo modo: io invece di andare su in bicicletta vado su in treno, metto la bicicletta su, vado lì a prendere il treno alla Reggio-Ciano, metto la bicicletta sul vagone e poi io salgo. Però prima... io salgo e vado in uno scompartimento. Maria arriva, guarda dove mi colloco, entra... io e lei non ci conosciamo, mette davanti a me, in fondo, il pacco, poi si prende su e va via, niente. Perché abbiam detto: “Se lo trovano...”. Siccome sapevamo che lo facevano, venivano a guardare dentro nelle valige ecc... di chi è? Nessuno lo sa. E viaggio bene fino a San Polo. A San Polo circondano il treno e ci sono i fascisti, la polizia fascista che va a guardare... ha guardato dappertutto, sotto i sedili, dentro ai pacchi, dentro le valige, dappertutto... non ha guardato il mio pacco, che era coperto con dei giornali, era legato, coperto... non l’hanno guardato. Comunque io quando sono arrivata a Ciano ho messo la bicicletta in stazione, poi ho preso l’Enza, e sono andata su, poi ho chiesto a loro di venire a prendere questa maledetta radio, perché da Ciano a Cerezzola ci sono 3 o 4 Km, o 5... dietro all’Enza, non è una cosa simpatica con quell’affare, però non potevo passare i posti di blocco. Ho risolto il problema in quel modo.
Io... sono venuti circa una settimana dopo che loro li avevano arrestati, perché eravamo ancora in agosto. Mi interrogano, per una giornata io sono stata interrogata, cioè al mattino, e m’ha interrogato il comandante dell’UPI, e uno dei commissari dell’UPI mi pare che fosse il dott. Cocconi, che era un cugino del comandante che era al comando unico, il vice comandante del comando unico dei partigiani della montagna. In un modo molto duro ci...: “Perché tu hai”. “No, io sono andata su a prendere delle uova, non è vero... c’è stato un uomo che ha voluto la mia carta d’identità ma io non so neanche chi sia”. Cioè, capisci, ma per due o tre ore, sempre botta e risposta, botta e risposta, botta e risposta. Poi quelli han detto: “Vabbé, adesso ti mettiamo a confronto di quel che t’ha preso la carta d’identità”. E vedo che questo lo portano dentro, un uomo, lui era in borghese ma era tutto vestito dalla festa, con la cravatta... io sapevo che i partigiani li torturavano, visto che lui non l’avevano torturato... e quello si mette “pé pé pé pé” a dire quello che avevo fatto, che non ho fatto, che mio fratello era un partigiano e che io ero andata a prendere una rivoltella. Guarda io ho perso il lume della ragione, ho perso il lume della ragione e ho reagito, ed è stata la mia fortuna, perché ho reagito in un modo molto duro: “Sei un delinquente, io sono venuta a prendere la rivoltella? Tu quando sono arrivata hai voluto la mia carta d’identità, hai preso nome e cognome e il numero della mia carta d’identità, e siccome hai visto che abitavo a Reggio, tu hai detto che conoscevi mio fratello...”. Quello l’ho dovuto dire, mio fratello era già scappato in montagna, era anche la mia salvezza, no? “Tu hai detto che conoscevi mio fratello, che io dovevo portare un’arma a mio fratello... ma come faccio io a dirti no? Tu eri armato, io avevo solo il cestino delle uova in mano”. Ma proprio in un modo molto cattivo. E allora lui ha detto: “Sì, le cose stanno così”. Cioè di fatto si è rimangiato praticamente quello che aveva detto. Allora loro han detto: “Bòn, adesso tu firmi il verbale”. Io se ti devo dire quello che han scritto nel verbale, non lo so. Io e mia cugina abbiam firmato il verbale, poi han detto: “Adesso andate a casa ma domani mattina noi vi... dobbiamo parlare ancora con voi”. Boh. Io dico: “Ma scusatemi, io ho paura a stare a casa, sfollo da... vado tutte le sere io vado a San Bartolomeo che ho mia cugina che è la segretaria del fascio di San Bartolomeo, se mi lasciate andare là...”. E mia cugina, l’altra che era con me, dice: “Sì, anch’io vado con lei oppure vado da mia mamma, se ci lasciate andare”. “Sì. Sì, lì ci potete andare”. Figurati! Io arrivo a casa, c’è Mafaldo Chiessi che anche lui era un antifascista che operava, lui teneva collegamento Reggio con Milano e mi dice: “Ma qui tu non ci puoi stare, ma tu scherzi, domani mattina ti torturano, quelli ti hanno dato il dolcetto, dice, ma tu domani mattina vedrai che cambiano le cose, non credo con un fatto come quello che è avvenuto...”, che gli ho spiegato ecc. ecc., dice: “Non ti credere che vedrai che senz’altro ti vengono a prendere, scappa subito”. Poveretto, mio padre a un determinato momento dice: “Ma santi numi, io ho quattro figli, devo dire che non li conosco, perché io non ho mai pensato che tu fossi...”. Perché operavamo ma operavamo nella clandestinità assoluta, nemmeno il mio fidanzato sapeva il lavoro che facevo, né sua madre né suo cognato gli avevano detto che io facevo questo lavoro. Perché per allora la clandestinità era determinante per la salvezza della vita... cioè non esisteva nessun valore, fondamentalmente esisteva questo. E dice: “E adesso anche tu vai via. Ho un figlio che è un anno che non so dov’è, è scappato ma non so se è vivo; l’altro è tre mesi che non so dov’è, dice, è venuto a casa un momento però adesso io non so più dov’è”, perché il collegamento pianura- montagna non esisteva con le famiglie, dice: “Adesso vai via anche tu, rimango a casa con una ragazzina di dieci anni”, perché mia sorella aveva quell’età, però dice: “Io penso che tu abbia fatto la scelta giusta, se non altro – dice – a differenza di noi che stando a casa facciamo la fine dei topi, tu hai la possibilità di salvarti, almeno hai la possibilità di difenderti; però ricordati, dice, che tuo padre ha una grande stima di te”. Questo è stato il discorso che mi ha fatto mio padre.
Noi andiamo, dopo poco ci arriva incontro una pattuglia, cioè un gruppo di partigiani del distaccamento Rosselli, lui era già, era uno dei partigiani della zona, ci son venuti incontro e arrivo in distaccamento. Come arrivo in distaccamento il comandante parla con noi, vuol sapere perché siamo andate su, gli spieghiamo quello che è successo, e anche lì un capovolgimento della situazione, una realtà completamente diversa, che non è solo che devi imparare a combattere, ma il comandante partigiano dice: “Guardate, in questo momento voi non siete più né uomini né donne, siete dei partigiani, fate ciò che fanno gli altri, dividete con noi e dormite nelle stanze con noi, dividete con noi il pasto, dividete con noi quello che c’è da fare, cioè pattuglie, inizialmente imparerete piano piano, intanto imparate ad adoperare le armi, a conoscere le armi, come accudirle, come conservarle, come caricarle e come utilizzarle”. Poi dice: “Vi faremo fare guardia, pattuglia e piano piano imparerete a diventare delle combattenti. Però qui avete i medesimi diritti e i medesimi doveri dei partigiani, qui nessuno vi deve mettere in difficoltà e voi dovete comportarvi da non mettere nessuno in difficoltà”. Infatti la sera andiamo a dormire, figurati... prima ci avevano messo a dormire in una stanza, era piena di cimici, siamo dovute scappare perché non si riusciva a dormire per i pizzicotti che prendevi, e siamo andate a dormire... la prima sera che ho dormito con loro io ero fra De Pietri che era un partigiano di Reggio, una persona che sono sempre stata amica anche dopo, e un carabiniere, un giovane carabiniere sardo che non aveva accettato l’ordine dei tedeschi ed era scappato con i partigiani. Abbiamo chiacchierato tutta notte, loro mi domandavano informazioni dalla città e io domandavo informazioni a loro, insomma, come ci dovevamo comportare, ecc. E mi son resa conto veramente della differenza. A casa, dormire vicino a un uomo... stavi fresca! La donna era importantissima per i partigiani, perché la donna andava dove loro non potevano andare; loro erano renitenti alla leva, loro erano uomini e ovunque dove andavano, anche giovani, venivano presi, perquisiti e mandati in campo di concentramento come minimo; mentre invece noi donne non essendo renitenti alla leva, non avendo l’obbligatorietà di essere nell’esercito o comunque fra i fascisti, questo ci permetteva degli spostamenti che a loro non permettevano, per cui vedi... stampa, propaganda, armi, tutto ad esempio... quando una formazione di GAP o di SAP che operava in pianura si muoveva, davanti c’era la donna, anche la formazione della montagna, il distaccamento Rosselli che era lì a Canossa, a Cavandola vicino a Canossa, se veniva a Quattro Castella, oppure faceva un’azione sulla Via Emilia, era una partigiana che faceva da battistrada, capisci? Che venivano chiamate staffette ma eravamo i battistrada in quanto andavi avanti a vedere quello che c’era e tornavi indietro dicendo: “La strada è libera”, era estremamente importante questo, oppure il trasporto d’armi, ecc.
Io ho scelto il nome di Laila perché quando tu entravi nella clandestinità, è il rapporto tra i clandestini, anche se eri a Reggio e operavi, come dire... con gli amici ero Anita, ma con i partigiani cioè quelli che operavano nella clandestinità, alle volte anche persone che non conoscevi, che vedevi per la prima volta, ti conosceva con il nome di Laila, perché il nome di combattente, cioè il soprannome che ti era dato ti permetteva una maggiore salvezza, in quanto se uno veniva arrestato, tanti si son salvati in questo modo, e quello sotto tortura parlava, dava il nome che tu gli avevi dato, ma non ti... che non era il tuo nome. Io avevo scelto il nome di Laila perché io, siccome leggevo molto, avevo letto un libro sugli Aztechi dove una principessa, una donna il cui fidanzato o marito era una figura di primo piano, cioè era un principe azteco, era comandante di una formazione che combatteva contro gli spagnoli, era caduto, il re era stato ucciso e lei aveva preso il suo posto; per cui era il primo nome di donna combattente, per me era giusto avere quel nome, era una combattente... per cui mi ero adeguata col nome a quello che facevo.
Va detto che le donne cominciavano ad aumentare, le donne su in montagna, perché erano già cominciati a essere degli arresti di donne, vi erano delle donne che erano state torturate ecc., quando erano in pericolo si ritiravano, andavano in montagna con i partigiani. Allora l’opinione pubblica, i beghìn: “Ah, chissà cosa fanno!”. Ecco, con il “chissà cosa fanno” mi sono incontrata, mi sono scontrata anch’io. Perché dopo un mese che io ero in un distaccamento, che ero su al Barazzone, vengo, mi chiamano di venire a Cerezzola che c’è Nanzio Corrada che mi aspetta, il mio fidanzato. Lui era via ed era tornato. Quando è tornato io mi incontro con il mio fidanzato. Quando l’ho visto che ho visto la sua faccia ho detto: “Qui altro che temporale!”. E quello mi dice: “Guarda che tu adesso vieni immediatamente via con me”. Dico: “Beh, e perché? Scusami, son dovuta scappare perché se mi prendono mi fucilano, credi che sia giusto che io ritorni a casa? Non è giusto!”. Dice: “No, no, ci sposiamo poi tu vieni a Varese e nessuno ti viene a cercare”. “Per Dio, ci sposiamo, diamo alle autorità le informazioni che loro hanno bisogno e tu credi che mi lascino a Varese? Ma io dico, ma sei più contento che mi torturano? Tu hai voglia di scherzare”. E poi dico: “Scusami, io ho fatto questa scelta, per quale motivo io devo venir via?”. E lui mi dice: “Se tu resti qui, diventi una donna indegna di educare i miei figli”. Ecco, lì io non c’ho più visto. Già avevamo avuto delle forti discussioni sul compito della donna nella famiglia, perché io non accettavo di essere considerata una nullità, che l’uomo mi sposava per avere una serva tuttofare e che gli faceva anche i figli, e chi comandava, chi decideva in casa era l’uomo. Ecco, io questo non riuscivo a capirlo e di conseguenza ero oggetto di continua discussione, discutevo anche con mio padre su questo ma solo che mio padre era una persona molto democratica e anche evoluta, ecco, che certi discorsi li capiva. Lui no, lui diceva che la donna... è l’uomo che decide. Scusami veh, un figlio è per te l’atto di un momento, per me nove mesi gli do la mia vita, per nove mesi il figlio vive dentro di me, e poi dopo sono io che lo alimento, sono io che lo accudisco, sono io che gli do la possibilità di vivere... e io non ho nessun potere decisionale, nemmeno di discutere come questo ragazzo deve crescere... beh ma dico, scherziamo? Dice: “In casa chi comanda è l’uomo”. Beh, dico: “Adesso tu vai a casa, a comandare a casa tua, che io vado in montagna, io resto dove sono perché questa è un scelta che ho fatto”. Non era una scelta facile, allora, perchè dopo tanti anni di fidanzamento era ciò che io avevo scelto per il mio futuro ecco, che io dovevo dargli un taglio netto a questo futuro, e per me non era una cosa facile, dovevo mettere nella mia mente anche il fatto che forse non mi sarei più sposata, perché allora dopo tanti anni di fidanzamento eri considerata una vedova, per cui nessun giovane, difficilmente un giovane si sarebbe sposato una donna, si sarebbe sposato una donna come me. Però per me non me la sentivo di formare una famiglia con un uomo che la pensava in quel modo.
Poi come sono guarita m’hanno dato ordine di andare al comando di brigata. Dal comando di brigata mi hanno detto: “Oggi, adesso spostiamo tutte le donne e formiamo una formazione di donne che deve, con il compito... – lo chiamavano “ufficio informazione”, cioè servizio informazione – con il compito di mantenere il collegamento con la brigata e il collegamento fuori, cioè il collegamento di tutta la brigata, il collegamento con le altre formazioni, il collegamento fuori della brigata e anche il servizio di vigilanza, cioè informazioni, ecc. ecc.”. E io sono andata a Vetto, sono andata a Vetto e ho aspettato che arrivassero tutte le altre partigiane. Allora viene giù il commissario e mi dice: “Laila, te la senti di prendere la responsabilità del gruppo? Tu sarai il comandante delle staffette, la responsabile del gruppo delle staffette che operano in questa formazione”. Io dico di sì, ho detto di sì e abbiamo cominciato a operare con tutto il lavoro... però il lavoro era talmente grande che alle volte non riuscivamo nemmeno a dormire perché non solo facevamo tutto questo lavoro di collegamento, ma facevamo anche il lavoro di battistrada, di staffette quando le formazioni andavano in determinati posti. Ad esempio quando hanno fatto saltare il ponte della Cerezzola, che è a 3 o 4 Km da Ciano, mi hanno chiesto di fare la staffetta alla formazione: erano 3 squadre di 3 distaccamenti comandati da Gianni, da quell’ufficiale che ti ho detto che conoscevo, il quale ha detto: “Laila, tu vai davanti”. Allora, anche lì, io non ero vestita in borghese, però portavo io... quando mi spostavo io ero sempre armata, a seconda dei posti dove andavo, se mi spostavo di notte tenevo la rivoltella che poteva anche ammazzare qualcheduno; se mi spostavo in zone pericolose, prendevo, avevo una piccola rivoltella, una Beretta, una 6 e qualche cosa, che adesso non mi ricordo bene il calibro, perché era molto... facilmente insomma riuscivi a nasconderla. E Gianni vede la rivoltella e dice: “Ma, Laila!”. Dico: “Guarda, ci mettiamo d’accordo. Io vado davanti, ecco, poi torno indietro. Se non ho voglia di far la strada vi faccio un fischio che vuol dire che la strada è libera”. Dico: “Però buttacaso, se io mi trovo che vedo una formazione, se non riesco a tornare indietro, perché può darsi anche che mi bloccano, se non riesco a tornare indietro o a darvi voce del pericolo, io guarda Gianni che anche a costo di piantarmi io la pallottola nella pancia – perché la rivoltella la tenevo nascosta qui, dico – io faccio sparare la rivoltella, perché loro non la vedono, come l’ho messa, almeno vi do il “stai attento” perché il rumore è quello che è, ma la porto solo per questo”. E lui: “Ma sei matta?”. “No, non sono matta – dico – ma ti rendi conto che io ho la responsabilità di tre squadre?”. Cioè vedi, ti dico questo per dirti che ... eravamo responsabili del nostro lavoro, cioè sentivamo la responsabilità del nostro compito; e se c’era anche pericolo la ragazza non era una cosa che facevo solo io... cioè le ragazze che avevano questa responsabilità andavano anche nel pericolo. E abbiamo continuato il lavoro così. Abbiamo sempre continuato... c’è stato un momento che eravamo addirittura una trentina, poi ci divisero: una parte faceva il lavoro politico di collegamento con la popolazione per avere l’aiuto della popolazione, noi continuiamo a fare il nostro lavoro: collegamenti, ecc. Arriviamo al 25 aprile, sono al comando di brigata, al comando di brigata mi dicono: “Prepara la formazione per rientrare”. Io aspettavo con ansia, cioè tutti quanti noi, erano nove mesi ormai che ero in montagna, lontano dalla famiglia; c’era una di un ristorante di Vetto che gli avevo insegnato a andare a casa mia per cui il collegamento... ecco lei una volta alla settimana veniva a far la spesa a Reggio e allora mi parlava della mia famiglia ecc. e portava le mie notizie. Comunque desideravamo... d’altra parte ero all’estremo della forza fisica. Guardate che il modo come vivevamo, la mancanza di alimentazione sufficiente, la mancanza di vitamine... avevo... prima di partire dovevo scaldare le gambe come i cavalli quando devono fare la corsa, perché come mi alzavo avevo un mal di gambe tremendo. Poi m’era venuta tutta una infiammazione cioè, le gengive tutte infiammate che calavano e siccome non avevi niente il medico ci aveva insegnato a mettere qualche milligrammo di verderame nell’acqua e poi disinfettarci con quella la bocca... per dirvi quella che era la nostra condizione. Poi venne su uno studente di medicina che portò su... fece ad alcune di noi – a me non le fece perché era un momento che non poteva farmele – delle punture di vitamina che quelle povere ragazze che hanno avuto quelle punture urlavano come delle pazze dal male, gliele faceva nella schiena. Questo per dirvi che era la nostra condizione. Perciò sentivamo il bisogno di tornare a casa. Quando al comando di brigata mi hanno detto questo, erano lì a Gottano, io da Gottano vedevo... mi son messa a sedere su un sasso fuori Gottano e vedevo tutte le montagne, i boschi, ecc. e mi è ritornato alla mente, cioè hai rivissuto tutto il periodo della guerra partigiana, i boschi... e mi è venuta una grande tristezza, non perché lasciavo quel posto, ma perché avevo lasciato tanti morti.
Poi sono tornata a casa, ma sapevo che a casa avrei ritrovato quello che avevo lasciato. E tenendo conto che lassù mi ero formata un’altra personalità, e avevo... ero molto rispettata non solo perché mi avevano dato i gradi, ma quando c’erano delle operazioni delicate da fare mi mandavano, per i collegamenti ecc. cioè ero molto valutata e non avevo, non intendevo più accettare di andare a casa dove dovevo domandare che cosa dovevo fare, cioè per essere costantemente... subire l’osservazione “ma tuo fratello dice, ma tuo padre dice, ecc.”. Come sono venuta a casa ho detto con mio padre: “Io non voglio più lavorare in casa, ma voglio trovare una dimensione di vita mia, trovarmi un tipo di lavoro per quale essere indipendente e poter dare il meglio di me stessa, perché in casa sono soffocata”. E papà ha accettato. Allora ho cominciato a lavorare, costruire le cellule femminili, costruire il movimento femminile, e poi mi hanno chiesto di fare il lavoro... cioè di... ho fatto una scuola di partito poi mi han mandato a fare il lavoro sindacale e lì ho cominciato il lavoro di difesa dei diritti delle donne. In quel momento avevo determinato quella scelta, che avrei lavorato in sostituzione di quelli che erano morti e per realizzare le cose a cui aspiravano, che in definitiva erano anche le cose mie, capisci? Cioè l’aspirazione era molto semplice: avere il lavoro, potere far vivere meglio la famiglia, poter mandare a scuola i figli, vivere in una società dove ognuno avesse la possibilità di esprimere i propri pensieri, metterli a raffronto con gli altri... avere delle idee, ma nello stesso tempo difendere i diritti della collettività, non solo individuali ma anche i diritti della collettività. Ecco perché, come ho cominciato subito a lavorare come partito pur non avendo delle grandi capacità, ma costruiamo le cellule femminili perché le donne uscivano da quella realtà, non ero la sola, uscivano tutte da quella realtà e per discutere i problemi, imparare a votare, quali erano i problemi delle donne, quali erano le rivendicazioni delle donne, dovevamo discutere assieme. Per cui, per discutere assieme, se discutevamo con gli uomini, nessuna donna parlava; invece una formazione di esclusive donne ci permetteva di discutere gli stessi problemi che discutevano le donne e inserire la nostra tematica rivendicativa; poi va detto che subito dopo la guerra c’era una miseria spaventosa, i bambini per la strada... allora la prima iniziativa che io proposi fu quella di un asilo nido: c’era un asilo, ma era troppo piccolo per tenere tutti i bambini; lì, in via Bainsizza, c’eran le case popolari, c’era una miriade di bambini che stavano tutto il giorno per la strada in attesa che la mamma tornasse, per cui mangiavano al mattino e la sera, perché a mezzogiorno difficilmente aveva la famiglia i mezzi per dargli un pasto. Allora il problema era di fare l’asilo, raccogliere quei bambini, toglierli dalla strada, i bambini che non andavano a scuola, toglierli dalla strada, riunirli, parlare con loro... cioè dargli un minimo di garanzie, di serenità, e dargli anche da mangiare. Il Partito Comunista ci regalò la sua sede che erano... un piccolo appartamento che c’era lì alle case popolari, e ci siam messi a discutere come farlo. La grande battaglia degli asili è stata la prima grande battaglia, assieme al diritto al voto, paritá salariale ecc.
Vedi, io ci tengo in quanto, come dire, non è per me stessa, ma ci tengo consapevole dell’utilità di chi ascolta queste cose e che vuole riflettere su queste cose. Perché è una realtà di vita, vedi che io non esagero, anzi certi episodi che sono eclatanti me li sono, come dire... non li presento per quello che sono, perché per me è importante la riflessione su questa realtà. E’ il Novecento, è di come abbiamo vissuto il Novecento, capisci?
Anita Malavasi (1921 - 2011)
pseudonimo
Laila
Resistenza
1943: Roncolo di Quattro Castella (Italia)
Armed Resistance, Unarmed Resistance, Partisan
gruppi di resistenza
144° Brigata Garibaldi »Antonio Gramsci«
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